ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Da Lee Trevino ad Arnold Palmer, da Jordan Spieth a Tiger Woods. Senza dimenticare i cestisti Michael Jordan e Kareem Abdul-Jabbar o i giocatori di football americano Joe Montana o Dwight Clark.

Tutti i grandi (e i meno grandi) campioni prima o poi sono finiti nel mirino di Walter Iooss Jr, il leggendario fotografo di sport.

Qui ripercorre sessant’anni di scatti attraverso aneddoti e retroscena a volte incredibili, spesso curiosi e sempre avvincenti

 

Testo e foto di Walter Iooss Jr

testo raccolto da Guy Yocom

 

Sto fotografando Jordan Spietha Dallas. Siamo su una postazione al GC Trinity Forest e ho bisogno che lui tiri un colpo con un ferro 6 verso la macchina fotografica, posizionata dritta sulla linea di gioco. In quel momento ho la testa di fianco alla macchina e la sto regolando; ma ovviamente ho tutta l’intenzione di spostarmi, perché alla mia vita ci tengo e controllo la macchina da remoto. Lancio a Jordan una palla sintetica – che è sì morbida, ma non poi così tanto – e gli spiego cosa vorrei che facesse. Nel giro di tre secondi, prima che io possa spostarmi, tira con tutta la forza. La palla sfiora la mia testa per due centimetri e sbatte sulla parete dietro di me. Ci rimane attaccata per un secondo, poi cade a terra. Gli ho lanciato un’occhiataccia, come a dire: “Sei arrivato a tanto così dall’uccidermi”. Ma il suo sguardo innocente sembrava rispondere: “Ehi, ho semplicemente fatto quello che mi hai chiesto di fare”. Aveva in testa solo il bersaglio. Non ho mai visto un golfista così sicuro di sé.

Ciò in cui sono un esperto,la cosa di cui vado veramente orgoglioso, è la capacità di svelare le persone per quello che sono veramente. Gli atleti spesso proiettano un’immagine di facciata o non del tutto autentica, qualcosa di diverso da ciò che realmente sono; e io voglio andare oltre quella maschera. Quando Johnny Manziel, un quarterback di football americano, arrivò al Cleveland, si presentò per un servizio fotografico per Golf Digest senza mostrare alcun interesse. L’ho sentito sussurrare a qualcuno del suo gruppo: «Dovremmo riuscire a essere fuori di qui in un minuto». Ma io mi ero preparato per quell’evenienza e sapevo come fronteggiare la sua eventuale riluttanza. Avevo portato con me alcuni dei mie scatti. «Johnny, sai chi è questo?», gli ho chiesto mostrandogli un fotoritratto che avevo fatto di Johnny Unitas, un grandissimo del suo sport. Lui scrollò le spalle; ma dopo che gli mostrai altri scatti di grandi campioni (Joe Montana, Joe Namath, James LeBron eccetera), il suo atteggiamento cambiò. In trenta secondi passò dal volersene andare al prendere la cosa sul serio. Abbiamo fatto un ottimo servizio fotografico.

Un giorno nel 2008 eravamo in due fotografie avevamo in tutto sì e no un quarto d’ora per fotografare Tiger Woods. Abbiamo deciso che avremmo avuto a disposizione esattamente sette minuti e mezzo ciascuno. L’ultima cosa che voglio sono foto in cui si vede che Tiger ha fretta; il che può succedere, perché la macchina fotografica non mente. Così quando è arrivato e ci siamo salutati ho iniziato a parlare molto lentamente, come se avessimo a disposizione tutto il tempo del mondo. Gli ho allungato qualche scatto: «Tiger, qui ci sono un paio di esempi di quello che faremo». Tra le immagini c’erano alcune foto di modelle in costume da bagno. «Oh cavolo, questa è Marisa Miller!», ha esclamato Woods, nel riconoscerla. Ha smesso completamente di pensare a che ore fossero. Questo è ciò che intendo quando parlo di svelare qualcuno per ciò che è. Le foto sono venute benissimo. E non ho nemmeno avuto bisogno di tutti i sette minuti e mezzo. Quando si tratta di servizi fotografici, ho due regole che si applicano bene anche in tutte le altre situazioni della vita. Prima regola: finisci sempre prima del tempo stabilito. Se finisci presto, le possibilità che quella persona lavori di nuovo con te aumentano esponenzialmente. Seconda: lascia la sede del servizio in condizioni migliori di quelle in cui l’hai trovata: niente bottiglie d’acqua vuote, niente sedie fuori posto. Le persone queste cose se le ricordano. Lo scatto di Marisa Miller è poi finito sulla copertina di Sports Illustrated Swimsuit Issue 2008. È stato preso nel tardo pomeriggio del quarto e ultimo giorno del servizio. Gli scatti migliori di solito vengono alla fine. Quindi, se devi decidere quale tra le cento foto che hai appena scattato sulla spiaggia mettere sul tuo profilo di Facebook, comincia dall’ultima e vai indietro.

Giamaica,diretti al luogo sulla costa dove avremmo fatto il servizio, io sul sedile davanti e Paulina Porizkova, una delle più belle modelle che io abbia mai incontrato, seduta dietro di me. Mancano pochi minuti al servizio per un’altra edizione dedicata ai costumi da bagno, e io volevo studiare il suo viso …un lavoro ingrato, lo so. Qando mi sono girato per guardarla stava leggendo un libro tenendolo vicino al viso, quasi attaccato al naso. Le ho suggerito: «Paulina, hai mai pensato di comprarti degli occhiali?». Lei ha abbassato il libro e ha risposto: «Non voglio vedere tutto». Credo che questo abbia rivelato molte cose di lei.

Nel 2015 ho fotografato Lexi Thompsonper una copertina di Golf Digest. Le ho messo un asciugamano intorno alle spalle, come se avesse appena finito un allenamento. Era solo velatamente provocatorio, ma l’ho comunque ammirata moltissimo per aver voluto osare. Il golf è il più conservativo tra i grandi sport e superare i limiti richiede coraggio. Lexi non è una modella professionista, ma non c’è dubbio che abbia posato come se lo fosse, mostrandosi con molta più disinvoltura di quanto avessi immaginato.

Michael Jordan mi ha fatto capirequanto la fama possa essere soffocante. Abbiamo lavorato insieme per due libri e per molti altri servizi, quindi ho passato molto tempo con lui. Quando era con i Chicago Bulls aveva bisogno del suo spogliatoio personale. Ogni persona famosa che passava per Chicago voleva incontrarlo. Quando usciva, sapeva che doveva ritagliarsi sempre almeno quaranta minuti in più per gli autografi e le foto con i fan. Persone che gridavano il suo nome, che si affollavano intorno a lui e che volevano toccarlo… orribile. Michael era estremamente consapevole dell’ambiente che lo circondava. Lo era in ogni momento, come se la sua testa fosse piena di occhi. Mentre lavoravamo sul libro Rare Airnel 1993, una sera a Miami dovevamo uscire a cena. Michael era esausto, si era rintanato in albergo, nella sua camera vestito solo con la tuta, ed era lì lì per cancellare la serata. Poi si è fatto forza: «Ok, usciamo, ma queste sono le condizioni: niente macchine fotografiche e tu mi fai da guardia del corpo». Quello che intendeva dire era che io dovevo intervenire ogni volta che qualcuno cercava di avvicinarsi, tenendo le persone lontano da lui. Non era affatto semplice. Ho passato la serata con Michael, Scottie Pippen e Horace Grant, altri due grandi cestisti, gridando alla gente: «Non stasera!». Era estenuante. Ero stupito da come Michael tenesse sotto controllo ogni aspetto della sua quotidianità, dalle regole non scritte che fissava per riuscire a sopravvivere. Una di queste era che non ammetteva le falsità. Chiunque nella sua cerchia provasse a mentirgli veniva tagliato fuori definitivamente, perché non era disposto a perdere tempo con questo genere di persone.

Preferirei comunque essereMichael Jordan piuttosto che Tiger Woods. Il livello di fama è simile, ma la differenza è che l’adorazione che i fan provavano per Michael hanno reso per lui più tollerabile la perdita della privacy. Ha trovato il modo di accettare tutta quell’attenzione, mentre Tiger la odia, il che non fa che peggiorare le cose. Ma capisco Tiger, perché ha un carattere diverso. Nel 2000 Tiger era all’apice, per quanto riguarda il suo gioco. Avevo pensato di seguirlo durante il WGC Match Play al La Costa per cercare di ricreare il famoso scatto del grande fotografo Hyman “Hy” Peskin, quello in cui Ben Hogan tira con un ferro 1 al 72° green del Merion durante lo US Open del 1950. Dovevo avvicinarmi a una distanza di alcuni metri da Tiger, cosa che non è piaciuta al suo caddie, Steve Williams. Al tempo non mi conoscevano. Williams mi guarda male e mi punta il dito contro, rivolgendomi una serie di imprecazioni, una sorta di monito a non avvicinarmi troppo o a non scattare una foto nel momento sbagliato. Alla fine mi si avvicina: «Ehi, amico, hai mai fotografato un torneo di golf prima?», mi chiede. «Sì, molti», ho risposto. L’avvertimento però era chiaro. Un mese dopo sono andato a Isleworth, in Florida, per una copertina di Sports Illustratedcon Tiger. Mi sono presentato a Woods e gli ho detto: «Se ti sembra di avermi già visto, è perché ti ho fotografato al La Costa il mese scorso. Ti sei accorto di me?». «A ogni buca», ha tagliato corto. Non ne ha più parlato, il che significava che più o meno si fidava di me. Da allora siamo sempre andati d’accordo.

Mio padre era un musicista jazze per un periodo ha suonato con Benny Goodman. Associava qualsiasi cosa ai suoni più disparati. Quando camminavamo per strada, ogni tanto si fermava e mi raccomandava: «Ascolta!», e ogni volta si sentiva un qualche strano suono provenire da qualche parte. Una volta stavamo passando davanti a un lustrascarpe e ci siamo fermati per qualche minuto ad ascoltare il rumore ritmico provocato dall’uomo che scuoteva il panno. Quella capacità di osservazione l’ha passata a me, solo che nel mio caso si tratta di immagini invece che di suoni. È un dono che mi ha trasmesso per caso. Nel 1959 mi ha portato a una partita di football dei New York Giants allo Yankee Stadium. Mi aveva dato una fotocamera Pentax con teleobiettivo. Le immagini che vedevo attraverso il mirino erano diverse da quelle che vedevo a occhio nudo. Quello era un mondo che potevo controllare. Da allora per ogni cosa che vedo, penso a come metterla in fotografia.

Un’altra cosa importante che fece mio padreè stato insistere, quando avevo 16 anni, che andassi a una scuola superiore pubblica di East Orange, nel New Jersey. I suoi genitori, cioè i miei nonni, spingevano per la St. Thomas Choir School di Manhattan, una scuola privata, per tenermi lontano da quella che definivano “la giungla”. Mio padre, che sapeva bene come funziona il mondo ed era molto saggio, non volle cedere: «Le scuole private di Manhattan non sono il mondo reale», sosteneva. Voleva che crescessi in un ambiente integrato e meno protetto. È stato probabilmente il suo dono più grande, perché fin da giovane potevo andare dappertutto e relazionarmi quasi con chiunque.

I miei genitori hanno divorziatoquando avevo quattro anni, ed è stata dura perché mio padre era il mio idolo. L’anno scorso io e mia moglie eravamo fuori a cena a Montauk. Nel ristorante suonavano vecchi brani sconosciuti, finché arriva un pezzo che riconosco immediatamente. Rose Room. Riconosco anche la registrazione: era di un concerto di Benny Goodman al Madison Square Garden nel 1941. E riconosco il contrabbasso di mio padre. Mi alzo in piedi ed esclamo: «Ma è mio padre!» Mia moglie, Eva, mi guarda con occhi pieni di comprensione. Lei sa quanto lo amavo.

Felt Forum, New York, 1968.A quel tempo lavoravo come freelance per la Atlantic Records, fotografando i musicisti durante i concerti: Janis Joplin, i Rolling Stones, Aretha Franklin, James Brown e così via. Quella sera stavo fotografando Jimi Hendrix, che era in uno stato visibilmente alterato ma suonava comunque in modo incredibile. Improvvisamente si fermò a metà canzone. Guardando dritto verso di me, biascicò: «Spegni subito tutti i flash o io non posso continuare a cantare». In quel momento non posso dire che i fan apprezzassero molto la mia arte…

Anche quando si tratta di persone famose,c’è quasi sempre un modo per stabilire un contatto. Una volta, il cestista Kareem Abdul-Jabbar stava ricevendo molte lettere d’odio e minacce di morte dopo che una casa di sua proprietà a Washington divenne il luogo in cui furono commessi degli omicidi da parte di un gruppo musulmano. Sports Illustratedmi aveva incaricato di fotografare Kareem, ma sapevo che in quel momento non voleva pubblicità e che non mi avrebbe ricevuto. Les McCann, un mio amico che è un noto musicista jazz, sapeva che Kareem amava il jazz e mi suggerì di comprare un paio di dischi rari e di regalarglieli. Les mi ha raccomandato anche di far sapere a Kareem che mi aveva mandato lui. Così ho fatto e Abdul-Jabbar ha acconsentito a ricevermi. La musica è un ottimo modo per creare una connessione con gli atleti.

Nel 1965 avevo 22 annie non sapevo quasi nulla di foto per il golf. Ma vengo chiamato comunque per andare al Laurel Valley Country Club a Ligonier, in Pennsylvania. L’incarico è di fotografare Arnold Palmer con il presidente Dwight Eisenhower. Sono insieme ad Arnold mentre aspettiamo il presidente, che è in ritardo. Allora Arnold mi invita a seguirlo in club house dove, nell’attesa, si siede a un tavolo con Jack Nicklaus. I due cominciano a parlare e Arnold si dimentica della mia presenza. Quasi sovrappensiero, inizio a fotografare. La luce non è buona e non è stato preparato nulla, ma uso comunque un paio di rullini. Oggi una di quelle fotografie è di gran lunga la più famosa delle decine di migliaia di foto di golf che ho scattato nel corso di sessant’anni. Non direi che è stata un caso, ma di certo è spuntata dal nulla. A volte va così.

Arnold era la perfetta incarnazionedi ciò che un essere umano dovrebbe essere. Trattava tutti esattamente allo stesso modo: con dignità. Tutti vogliamo sentire di contare qualcosa, di valere. Arnold capiva quanto questo fosse importante e assecondava questo bisogno. Ma voleva dignità anche per se stesso. Quando vedevi Arnold in foto e in televisione, vedevi un uomo che combatteva non solo per vincere, ma per guadagnarsi la sua dignità, come facciamo tutti. Questo era il suo carisma.

Jack Nicklaus, invece, era letale.Lavorando in così tanti àmbiti sportivi per così a lungo, ho imparato a riconoscere un piccolo numero di atleti che comprendevano davvero l’importanza della vittoria. Michael Jordan, Bill Russell, Wayne Gretzky: vincere, per loro, era molto più di una parola. Il loro talento era incredibile, ma a esso si aggiungeva la reputazione di essere implacabili. Volevano intimidire e usare la paura a loro vantaggio. In questo, Jack era un esperto. La sua competitività era mascherata dal galateo del golf: le strette di mano, i saluti al pubblico e così via. Giocava secondo quelle regole, ma la sua essenza era quella di un giocatore implacabile. Hai mai visto un video di Jack che sta lì a perder tempo, che fa dei colpi per mettersi in mostra o che si mette a scherzare? No, perché è una cosa che non esiste. Giocava per vincere. Punto.

La fortuna aiuta chi si prepara.Prendi per esempio The Catch, lo scatto cho ho fatto a Dwight Clark mentre riceve il passaggio da Joe Montana segnando il touchdown vincente alla finale della NFC del 1982. Mi piaceva fotografare i ricevitori e preferivo farlo con un normale obiettivo da 500 millimetri preregolato a una distanza di tre metri. In questo modo puoi fotografare qualcosa di vicino a te. Non chiedermi perché ero in quell’angolo del fondo campo. Quella è stata fortuna. Ma tutto il resto, la palla perfettamente racchiusa tra le mani protese di Clark all’apice del salto, la fotografia a fuoco e ben inquadrata, per quello mi ero preparato. Avevo anche fatto pratica con quello scatto e ne avevo ottenuto uno simile con un ricevitore dei Browns di nome Dave Logan. È ciò che mi hanno insegnato a fare.

Joe Montana vi batterà,o imparerà a battervi, non importa in cosa. Sono pochissimi gli atleti così. Nel 1999 eravamo a Necker Island, alle Isole Vergini, e aspettavamo di fotografare Joe e sua moglie, Jennifer, per un’edizione di Sports Illustrated Swimsuit Issuededicata alle coppie. Il mio assistente Welch Golightly e io stavamo facendo dei tiri a canestro su un campo della zona. Joe arriva e, prima ancora che ci salutassimo, Welch gli passa la palla, come una sorta di provocazione. Joe ci lancia uno sguardo di sfida, come a dire: “Oh, sul serio?”. E centra in pieno il canestro da sei metri. La sua posizione e il lancio erano perfetti (è stato anche un fuoriclasse del basket) e nei suoi occhi c’era la scintilla dell’agonismo. Welch e io ci siamo guardati ammutoliti. Era evidente che è uno capace di batterti in qualsiasi cosa.

Durante gli anni Settanta,nelle palestre della NFL ho visto abitudini difficili da digerire. Agli atleti venivano regolarmente drenate le ginocchia con aghi lunghi e spessi, una cosa che ti faceva male solo a guardare. Oppure facevano loro iniezioni di antidolorifici locali che si vedeva facevano malissimo. L’aspetto più straziante era quanto tutto questo fosse considerato normale. Una volta Sonny Jurgensen mi ha confidato che durante una partita il ginocchio gli doleva parecchio e il medico non si è nemmeno preoccupato di sfilargli i pantaloni, infilando l’ago direttamente attraverso l’uniforme. Mi piacevano le palestre perché ci passavano tutti i giocatori, la conversazione era buona e davano un’immagine cruda e realistica del gioco. Ma diavolo, c’era un sacco di dolore là dentro.

Quello della fotografiaè un ambiente estremamente competitivo. Prendi qualcuno come Neil Leifer, uno dei più grandi fotografi di sport e per molto tempo uno dei miei colleghi a Sports Illustrated. Mi sentivo sempre in competizione con lui, perché volevamo le stesse cose: copertine, incarichi importanti, pagine doppie. Avevamo stili diversi, Neil sempre preparatissimo, io molto più rilassato. Arrivava a una partita di football diverse ore prima del kickoff, mentre io raggiungevo lo stadio soltanto un’ora prima. Ma la qualità del suo lavoro era altissima: lo scatto di Muhammad Ali in piedi che sovrasta Sonny Liston dopo averlo mandato a tappeto è la più grande foto sportiva di tutti i tempi. Il confronto con lui ha fatto lavorare più duramente e mi ha spinto a migliorare. Proprio come i Rolling Stones hanno spronato i Beatles (e viceversa), Neil ha portato alla luce il meglio in me. E non fu una brutta cosa nemmeno per Sports Illustrated.

Nel 1980 ricevetti l’incarico di lavorarea una festa a Lake Placid, alla vigilia delle Olimpiadi invernali. Mi ero accorto che c’era anche Bill Eppridge, noto per aver scattato l’incredibile foto dell’assassinio di Robert Kennedy nel 1968. Indossava una mimetica militare, il che per me non aveva alcun senso. Quando gli ho chiesto il motivo, mi ha risposto: «Perché così nessuno farà caso a me». Da allora, quando fotografo in pubblico cerco di essere la persona che si nota di meno in tutta la stanza.

Il sabato dello US Open del 1968all’Oak Hill ho commesso l’errore di entrare in un bunker per scattare una foto. Per Joe Dey, direttore esecutivo della USGA, che già era alterato con me per via di precedenti licenze che mi ero preso (come spingermi troppo all’interno del campo), è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: ha revocato il mio accredito e mi ha fatto sbattere fuori. Per me è stato traumatico, come per un soldato a cui vengono strappati i gradi dall’uniforme. A quel punto, però era un grosso problema, perché avrei dovuto essere di nuovo lì il giorno dopo, la domenica, ma a quel punto non ero più in grado di lavorare. Sono intervenuti i miei superiori e il mattino dopo sono stato mandato nell’ufficio di Joe Dey, in club house, per scusarmi. Era un tipo che faceva paura, la personificazione dell’autorità, noto per indossare una giacca di lana scura persino nelle giornate più calde. A causa di un problema di salute aveva la palpebra di un occhio un po’ abbassata, il che gli dava un’aria demoniaca mentre mi rimproverava aspramente. Mi sono scusato, ma non è stata l’ultima volta in cui ho superato i limiti. Per ottenere lo scatto migliore a volte devi rischiare di essere buttato fuori.

Con Lee Trevino era impossibilefare una brutta foto. Lo scatto in cui indossa un casco coloniale e tiene un serpente in una mano e un’ascia nell’altra poco prima di vincere lo US Open del 1971 a Merion, l’ho fatto io. Oltre quarant’anni più tardi l’ho fotografato insieme a un serpente per Golf Digest. Nel corso degli anni Lee mi ha sempre riconosciuto tra la folla e mi ha usato come spalla mentre scherzava con il pubblico. «Guardate quel fotografo con i capelli lunghi», aizzava la gente. «Scommetto che la scorsa notte si è fumato mezzo chilo di marijuana». Il pubblico andava in delirio, poi Lee mi guardava e mi strizzava l’occhio. Sapevamo entrambi che si trattava solo di spettacolo. Lee era un gran lavoratore. Sembrava che non si prendesse mai una settimana libera. Alla fine di quella grande stagione del 1971, Sports Illustratedlo ha nominato “Sportivo dell’Anno” e mi ha mandato a Dallas per fargli le foto per la copertina. Lee mi ha invitato a casa sua per la cena del Ringraziamento. Abbiamo mangiato tantissimo e poi siamo andati sul suo portico chiuso per scattare le foto ritratto. Poco dopo aver cominciato, ho guardato attraverso il mirino e ho visto che si stava addormentando. Era esausto. Lui è una delle due persone che si sono addormentate durante uno dei miei servizi. L’altra è stata il giocatore di baseball Cal Ripken Jr. Verso la fine della sua serie di 2.632 partite consecutive giocate, stavamo lavorando sulla sezione fotografica della sua biografia,Cal on Cal. Per via delle tempistiche di lavorazione, dovevamo farlo necessariamente ad agosto, alla fine di due partite in successione. Era terribilmente caldo e umido e al termine della seconda partita era sfinito. Ma aveva dato la sua parola che avrebbe fatto il servizio, e per lui un accordo andava rispettato. Poco dopo averlo fatto sedere, l’ho visto addormentarsi. Mi sono veramente sentito in colpa di doverlo risvegliare.

Quando osservo il ritmotenuto da Jordan Spieth, Rickie Fowler e tutti gli altri, non capisco come possano resistere dieci anni. Oggi la pressione è molto più alta rispetto a un tempo. Gli sponsor e i media non allentano mai la presa. Le gare e gli allenamenti sono estenuanti. I periodi di recupero, il tempo necessario per far riposare la mente, sono troppo brevi. Non sono un esperto di golf, ma sono stato testimone da vicino delle vite degli atleti per sessant’anni. Ma una cosa posso dirla per certo: il record di Jack Nicklaus di 18 Major vinti non verrà mai battuto; e, probabilmente, nessuno riuscirà nemmeno ad andarci vicino.

Quindi chi manca? Tiger Woods,ovviamente. Per quante volte l’abbia fotografato, qualcosa sfugge sempre. Il muro che ha eretto intorno a lui per necessità, la complessità di essere lui, quello traspare nei suoi scatti. Un giorno spero di guardare attraverso il mirino e di vedere negli occhi di Tiger un uomo che finalmente non si sente più a disagio a cercare di entrare in contatto con me. C’è ancora così tanta bellezza lì dentro. Ma è così difficile da raggiungere.

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