ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Che giochi o che non giochi, che manchi il taglio o vinca il torneo, Tiger Woods resta il focus di ogni discorso. Il suo ritiro a Torrey Pines ha continuato a dominare la scena mediatica anche nel week end, quando gli altri si dannavano per la vittoria e lui se n’era già tornato a casa, non so se a bordo della Porsche Panamera con cui è partito in compagnia del suo caddie Joe La Cava, con la sacca sdraiata sul sedile posteriore, proprio come uno di noi di ritorno da una gara di circolo alle prese con un portabagagli non troppo capiente.

Nella sua modesta reggia di Jupiter Island, Tiger si leccava le ferite e cercava di venire a capo della nuova contrattura lombare che l’aveva messo fuori gioco: intanto però il mondo-web ribolliva di sentenze, previsioni, pareri trinciati con quella tipica approssimazione che caratterizza la comunicazione in tempo reale, dove tutti sanno tutto di tutti, scienziati del nulla ma professori in servizio permanente effettivo.

“E’ finito”, “Non è finito”, “Tornerà grande”, “Può dire addio ai record”, “E’ la solita scusa”, “Si vedeva chiaramente che soffriva”: sui social network la tavolozza delle sfumature era infinita. Nel frattempo, perfino regista e telecronisti del Farmers Insurance Open (a proposito, è tornato alla vittoria Jason Day) se ne sentivano maledettamente orfani, al punto da ritagliare molte parentesi dedicate all’analisi dei suoi (spesso orribili) colpi e alla comparazione dei suoi vari swing attraverso le epoche, dagli esordi ai nostri giorni: il che significa quasi ventanni di storia del golf. E questo è il punto: può essere simpatico o antipatico, può essere rotolato giù dal piedistallo “morale” dopo lo scandalo sessuale (come se un campione dovesse per forza essere sempre un gran bravo ragazzo e non un uomo con le sue fragilità, le sue debolezze, i suoi errori) ma Tiger è già nella storia del golf e la attraversa da così tanto tempo quasi ininterrottamente che già le immagini dei suoi primi trionfi, con quelle magliette XXL e i pantaloni larghissimi, appaiono molto datate, testimonianze di stagioni lontane. Ma, appunto, è da quei giorni, dalla seconda metà degli anni ’90, (da un’èra pre-11 settembre, per dire) che questo straordinario campione è lì. Assistere indifferenti a un crollo così fragoroso e tutto sommato improvviso, anche se annunciato dai molti problemi fisici dei tempi recenti, proprio non sarebbe possibile. Immaginare, al momento, il golf senza di lui è un po’ come immaginare Roma senza Papa (titolo di un bel libro che diede fama solo postuma a uno scrittore misconosciuto in vita come Guido Morselli).

Nessuno, se non forse i suoi medici, può davvero dire ora se Tiger tornerà almeno ad assomigliare a se stesso se non a macinare quegli ultimi record che mancano per consacrarlo definitivamente il più grande di sempre. Di certo si può azzardare che, mentre comincia a farsi chimerica la prospettiva di vincere gli ultimi 4 Majors per uguagliare Nicklaus, si fa più dura anche la rincorsa a quelle tre vittorie nei “normali” tornei del PGA Tour che lo separano dal primato di vittorie totali di Sam Snead. Un discorso improponibile appena qualche mese fa, non una vita fa, se è vero che 5 vittorie Tiger le aveva inanellate nel solo 2013, dopo aver già fatto i conti con la sua crisi matrimoniale e con un paio di interventi chirurgici. Questa è la novità vera del momento, sottolineata ulteriormente da una circostanza semplicemente impensabile prima: precipitato oltre il 50esimo posto della classifica mondiale, e destinato a sprofondare ancora, Tiger non ha il pass per partecipare alle prove del WGC, da sempre suo abituale territorio di caccia e di conquista.

E’ una prospettiva inedita, che – inutile negarlo – sconcerta l’ambiente del golf, abituato da una ventina d’anni ad adottare lui come “benchmark” (per usare un linguaggio finanziario), ovvero come valore di riferimento su cui tarare anche le prestazioni degli altri.

Le uniche certezze disponibili al momento sono quasi tutte sconfortanti: se è vero che il blocco lombare di Torrey Pines è stato causato da un brusco calo di temperatura, vuol dire che la schiena di Tiger è diventata fragile, esposta a tutti i rischi. E non aggiungo paragoni con i blocchi e i colpi della strega che affliggono periodicamente noi attempati “carrellanti” per puro rispetto nei confronti di un campione straordinario. In secondo luogo, certe flappe abbinate a certi top in quel gioco corto che, in passato, era stata l’arma in più da sommare alla potenza per recuperare nei molti giorni di imprecisione dal tee, paiono difficilmente addebitabili al mal di schiena. Denunciano, piuttosto, un’ improvvisa insicurezza che non gli è mai appartenuta, inducendolo addirittura a optare per dei colpi a correre col ferro 4 dove prima ricamava dei chip impeccabili. Terzo: l’insistenza sul driver dal tee anche quando un legno 3 o addirittura un ferro avrebbero limitato i rischi e magari garantito un risultato migliore, sono un’altra spia preoccupante. Sembra quasi che Tiger non voglia rassegnarsi alla sua attuale condizione, ma anzi voglia dimostrare che è ancora in grado di ridicolizzare la lunghezza delle buche. Così facendo, però, finisce un po’ dovunque e, soprattutto, sottopone il suo fisico a un insistito stress che in un momento così sarebbe meglio risparmiarsi.

Resta un solo fattore, a suo vantaggio: che lui semplicemente è Tiger Woods, cioè un fenomeno autentico e, come tale, potrebbe ritrovarsi magicamente, se solo recuperasse un’accettabile affidabilità fisica, ma tenendo ben presente che la soglia dei 40 anni è ormai in vista. Non è un fattore secondario e, anche se l’unico a favore, è forse il più importante.

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