ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Del parlare da soli. Normalmente non si dovrebbe fare, ce lo insegnano da piccoli, attaccando alla pratica dell’autoconversazione lo stigma della devianza. Può essere permesso e giustificato a menti creative (ma solo, appunto, mentre creano). In quel caso, come si dice, è quasi “un pensare ad alta voce”, un modo per raccogliere idee in sovrannumero rispetto al flusso dei pensieri. E, insomma, con la scusa della creatività si può sperare di non passare per matti. Oppure, ma è più roba da film (fa comodo agli sceneggiatori) che da vita reale, c’è il parlare da soli in momenti di grande tensione. Di solito è l’attrice protagonista (chissà perché?) a cimentarsi nella riflessione ad alta voce sul da farsi in condizioni di grande difficoltà, quando il film sta virando verso l’apice drammatico. Più che un parlare da sola, per lei è un darsi istruzioni: ora fai questo, poi quest’altro. Il più delle volte si tratta di salvare il mondo e bisogna trovare il pulsante giusto, i comandi appropriati da dare attraverso una tastiera, la leva che interromperà un qualche esito distruttivo.

In quel caso, ma raramente, la protagonista può spingersi fino a rivolgersi a sé stessa per nome, dandosi istruzioni. Lei parla, noi ascoltiamo e comodamente veniamo informati in diretta su cosa sta succedendo e quanti secondi restano prima dell’esplosione finale da scongiurare. E ci sembra tutto molto logico. C’è un parlare da soli speculativo, filosofico. Ma ha qualcosa di ostentato. È una specie di esibizione dialettica, in cui chi parla fa le domande e dà le risposte. Non crea un vero effetto di dialogo ma qualcosa di posticcio.

Una conversazione mimata, imitata, che alla fine, mentre vuole essere prova di intelligenza, riporta nel confine della stupidità. Ma è tutta roba preparata, studiata, mai istintiva. Il filosofo o l’eroina del film mai proromperanno nel grido spezzato del proprio nome. No. Quello lo fa solo il golfista. Dopo una manatella in un putt da 40 centimetri o dopo un drive push spedito dritto nel bosco: «Giuseppeee! Che cavolo fai?». Non siamo nel campo delle istruzioni preventive del film, con cui si tenta di dominare una situazione difficile. Non siamo neppure alle domande retoriche.

Siamo nell’unico caso in cui si parla apparentemente da soli ma, in realtà, in due: uno è quello che osserva contrariato, l’altro è quello che ha tirato il putt o il drive. Ecco il vero mondo speculativo, altro che la dialettica affettata del professore marzulliano (stretto tra le sue domande e le sue risposte). Il golfista ha un dialogo in cui uno dei protagonisti usa la voce (quello che sa tutto ciò che si deve fare) e l’altro, invece, spietato, replica coi fatti. È una grande scuola di vita, si percorre per qualche secondo un terreno normalmente precluso (se non, ehm, nel disturbo mentale), quello del distacco da sé.

A saperla dominare è una condizione che può stimolare l’intelligenza o almeno portarci, attraverso una mezza pazzia, a valutare in modo ancora più oggettivo la realtà. Perché in quello scontro tra chi parla, urla, inveisce e chi sbaglia i colpi (interpretati dalla stessa persona) vince sempre il secondo. E impone la sua regola del fatto compiuto. L’altro sbraita, invoca il proprio nome e lo insulta; ma poi deve farsi una ragione di ciò che è successo. E alla buca successiva i due torneranno uno, si spera. A proposito: «Giuseppe, hai preso la virgola».

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