ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Nei primi anni Settanta del secolo scorso in Italia avevamo 41 campi, quasi tutti tagliati nei boschi o comunque molto ricchi di alberi.

Anche all’Acquasanta, esempio quasi unico di links, il paesaggio era comunque dominato dai caratteristici pini dell’agro romano, che a prima vista si facevano notare più delle gobbe e delle ondulazioni del terreno.

Alcuni nomi erano evocativi: “I Roveri”, “Le Betulle”, “La Pineta di Arenzano”, “Le Fronde”, “il Golf degli Ulivi” eccetera.

Altrove le piante non stavano nel nome, ma erano molto folte in campo.

Per me, le seconde nove di Villa d’Este rappresentavano l’immersione nel vero bosco: non una strada, non un traliccio, solo faggi, castagni, fairway (stretto) e green (ondulato).

Un po’ come a Biella, dalla 12 alla 16. A Bergamo nel sottobosco c’erano delle felci così grosse e fitte che nel mio immaginario di ragazzino temevo che uscisse un brontosauro.

Alberi secolari a Carimate, a Menaggio e a La Mandria.

A Monza spesso la palla non riusciva nemmeno a entrare in bosco, respinta dai tronchi vicinissimi gli uni agli altri.

A Riva dei Tessali, invece, i pini e i loro aghi erano una trappola insidiosa: a volte la palla non scendeva nemmeno a terra.

A Punta Ala, bosco e macchia erano ostacoli seri.

Il simbolo di Barlassina è da sempre una quercia; immagine del magnifico esemplare che troneggiava in mezzo al fairway della 18, abbattuto da ignoti vandali una notte.

Da un certo periodo in avanti si sono costruiti campi più aperti, più lunghi ma con meno piante.

Monticello, aperto nel 1974, era il nuovo stile, “lungo” e largo (per l’epoca); pochi alberi, quasi tutti messi a dimora appositamente.

Tanti altri a seguire, come Margara o “Le Robinie”, un nome che non corrisponde del tutto al contesto.

Difficile trovare campi recenti con nomi di alberi: non usa più, perché gli alberi sono sempre meno.

Piacevoli eccezioni, “I Ciliegi” e “I Salici”.

Anche la fisionomia dei campi si è trasformata.

I campi più recenti oggi hanno un patrimonio arboreo più cospicuo e sviluppato, mentre i percorsi tradizionali hanno perduto, nel tempo, migliaia di piante: vecchiaia, trombe d’aria, malattie, parassiti.

A La Mandria ormai ci si vede a quattro buche di distanza, quando una volta si era immersi totalmente in corridoi verdi; la Pineta di Arenzano non esiste più, come i boschetti di pini di Garlenda, divorati dal blastofago.

Contribuisce un certo accanimento da parte dell’uomo: non le amano, in genere, i landscape architect; alcuni le temono, giudicandole pericolose; di solito, non le apprezza chi deve curare il campo (fanno ombra, l’erba cresce meno, conservano l’umidità e favoriscono il muschio, le radici rovinano i fairway e poi, insomma, tutte quelle foglie in autunno…).

Spesso non le amano i giocatori, soprattutto quelle che hanno la sventura di intercettare la traiettoria dei loro colpi (per lo più mediocri), come appunto la quercia di Barlassina, il pioppo della 12 di Garlenda ormai scomparsi e come – per citare l’esempio più significativo dell’epoca recentissima – l’illustre pino della 17 di Augusta, che aveva resistito alle ire di Eisenhower ma non alla tempesta di ghiaccio del 2014.

Sopravvive fieramente il grande cedro dell’Atlante della 11 di Carimate, una meraviglia botanica.

Il ciclo della vita determina la caduta delle piante: ma a me che le ho sempre amate pare sbagliato che non vengano rimpiazzate, e anzi rinfoltite, sia pure non sulle linee di tiro; la scelta di rendere il gioco più facile e privo di ostacoli favorisce la diffusione, ma non il fascino dei luoghi.

E forse neppure quello del nostro sport.

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