L’età sta rubando la memoria al grande designer, ma sua moglie e i tanti album dei suoi progetti consentono ancora di conoscere da vicino questa icona del golf mondiale.

di Ron Whitten

«Ti prego, non dare un finale triste alla nostra storia», mi raccomanda Alice Dye mentre chiudo il quaderno degli appunti e spengo il registratore. «Non lo farò», la rassicuro. Ma mentre faccio quella promessa, so già che credo di non poterla mantenere. Come può questa storia non avere un finale triste? L’intera situazione è triste, perfino tragica. Il leggendario architetto di campi da golf Pete Dye, creatore del TPC Sawgrass, di Crooked Stick, dell’Ocean Course a Kiawah Island, di Whistling Straits e di molti altri, un autentico genio nel suo lavoro, il cui nome è inserito nella Hall of Fame del golf, marito di Alice da 68 anni e amore della sua vita, siede su una sedia a dondolo a tre metri da noi, apparentemente ignaro della nostra presenza. Sembra in salute, forse con il viso un po’ gonfio, incredibilmente in forma per un uomo di quasi 93 anni. Ma il tempo lo ha derubato della sua vitalità. Ora sembra quasi un bambino, la sua attenzione non su di noi ma su una replica di una vecchia serie in TV. Ai bei vecchi tempi, trent’anni fa, o anche solo tre, non avrei potuto avere una conversazione con Alice senza che Pete intervenisse. E se facevo a Pete una domanda era certo che Alice lo avrebbe interrotto rispondendo al posto suo. Avevano l’abitudine di parlarmi sempre tutti e due insieme. E durante i giri di golf con loro, non solo parlavano allo stesso tempo, ma tiravano anche la palla contemporaneamente. Gli unici giri da tre ore che abbia mai giocato li ho fatti con loro.

A casa Dye

Sono a casa dei Dye, su Polo Drive a Gulf Stream, in Florida, loro residenza dal 1971. Alice, 91 anni, è costretta temporaneamente su una sedia a rotelle, la gamba sinistra tesa in avanti, un tubo di drenaggio che esce dalla rotula, risultato di complicazioni seguite a un intervento di protesi al ginocchio. Si sta riprendendo, ma è frustrata dalla lentezza della sua guarigione e da come le sue condizioni le impediscano di prendersi cura di Pete. In casa ci sono altre tre persone a occuparsi di entrambi, ma è pur sempre suo marito quello che ora ha bisogno di lei. Un’assistente accompagna Pete in soggiorno, lo fa sedere sulla sedia a dondolo e gli accende la televisione. Garantisce ad Alice di avergli dato il pranzo, solo cibo morbido, dopo l’incidente di qualche giorno prima in cui ha rischiato di soffocare e che gli è costato una corsa al pronto soccorso.

A voce alta, Alice annuncia la mia presenza a Pete, ma lui continua a guardare la TV. La mente di Pete è in uno stato di irreversibile declino. Chiamala come vuoi: demenza…, Alzheimer…, vecchiaia… è un’eclissi totale del cervello. Qualsiasi cosa sia, è crudele; e lo sta derubando dei suoi ricordi. Lo sta anche spogliando della sua personalità. Per me Pete è sempre stato una combinazione di Will Rogers, Walt Disney e Rod Serling. Ora è a malapena Pete. Ti spezza il cuore. Chiedo ad Alice se secondo lei Pete si renda conto di chi io sia, o se, cosa ancora più importante, sappia ancora chi sia lui. «Non so di cosa sia consapevole», risponde. «È così strano. Non reagisce molto quando gli si parla. Ma credo che comprenda ciò che gli succede intorno più di quanto crediamo». Immaginavo che questa situazione sarebbe prima o poi arrivata, ma forse non volevo accettarlo. Durante un giro di golf nel 2015 con Pete e Alice al Gulf Stream Golf Club, proprio in fondo alla strada dalla loro casa, Pete mi aveva fatto una domanda e cinque minuti dopo me l’aveva fatta di nuovo. E continuava a sbagliare il mio nome. Ho pensato si trattasse solo di quella smemoratezza che viene con l’età. L’anno scorso, quando Alice ha ricevuto il Donald Ross Award dalla American Society of Golf Course Architects, Pete era rimasto in disparte. Quando sono andato da lui mi ha stretto la mano e mi ha chiesto: «Come va? Come va?». Ma ho notato che faceva la stessa domanda a tutti. Pensavo che non riuscisse a ricordate i nomi, ma non sono nemmeno sicuro che abbia riconosciuto qualcuno di noi.

Alice insiste che io prenda la mia sedia e vada a parlare con Pete. «Ci rimarrebbe male se non lo facessi», mi intima. Vado da lui e gli tocco gentilmente la spalla destra. Lui si gira e per un momento mi fissa con uno sguardo assente, poi comincia a sorridere. «Pete», lo saluto, «come stai? Sono Ron Whitten di Golf Digest». Ora sorride sul serio e continua a muovere le labbra, biascicando una parola. Suona come “…ore”, o “…scrittore”. «Sì, sono uno scrittore», confermo io. «Sto scrivendo un articolo su di te». Pete ridacchia, e all’improvviso sono sopraffatto dall’emozione. Forse perché credo che mi riconosca. O forse perché riesce a malapena a parlare. O più probabilmente perché non posso fare nulla per aiutarlo. Facilmente entrano in gioco tutti questi motivi, ma soprattutto mi emoziono perché era la stessa risatina che avevo sentito fare a Pete così tante volte in passato. Sembrava un modo per dirmi che a lui andava bene così, che aveva accettato il suo destino e non aveva paura. Quanto vorrei avere il suo stesso coraggio. «Volevo solamente vederti e dirti quanto ti voglio bene», lo rassicuro. Lui ridacchia ancora mentre cerca di parlare di nuovo, ma le parole non riescono a prendere forma. «Negli anni mi hai regalato così tante ore preziose del tuo tempo e ora voglio ringraziarti per questo. Mi hai dato dell’ottimo materiale su cui scrivere», gli racconto. Sto parlando a vanvera, la voce mi si strozza. «Sono così felice di rivederti».

Pete continua a guardarmi, poi il suo sguardo volge a sinistra, verso la televisione. Stringo la sua mano, e il suo sguardo torna su di me. «Abbi cura di te, amico mio…», gli raccomando; e lo sento rispondere un «Sì» appena sussurrato. Mi tolgo gli occhiali e mi asciugo le lacrime. Ripeto: «…abbi cura di te» e sento un flebile «Lo farò». Ma l’ho sentito davvero?

Quando più tardi ascolto di nuovo la conversazione, rimando quella parte più volte. La registrazione è debole, perché il registratore era posizionato a una certa distanza, vicino ad Alice. Non avevo pensato di portarlo con me quando sono andato a parlare con lui. Riesco chiaramente a sentire Pete dire “Sì”. Ma l’altra risposta, “Lo farò”, non veniva affatto da lui. Veniva da qualcuno che stava parlando in televisione. Quante sono le probabilità una frase pertinente venisse trasmessa proprio in quel preciso momento? Quando ritorno da Alice, lei mi sussurra: «Io penso che lui sappia. Non credi?» Vorrei rispondere, ma sono troppo preso dall’emozione.

Una vita fianco a fianco

La madre di Pete, Elizabeth, vissuta anche ella fino a novant’anni, aveva tenuto un album dei ricordi delle sue attività durante il periodo scolastico. Dopo che Pete ed Alice si sposarono, Alice iniziò a tenere album dei loro comuni successi nel golf e negli affari. Nel tempo gli album divennero consunti e le foto più vecchie ormai avevano iniziato a sbiadire. Così alcuni anni fa Ken May, fotografo di lunga data per la Dye Designs, ha digitalizzato tutto ciò che era stato raccolto in ognuna di quelle pagine, quasi 8.000 fotografie in tutto. Con il permesso di Alice, ho esaminato la versione elettronica di una vita intera, due vite per l’esattezza, narrate attraverso foto scolorite e ritagli color seppia. Il primo documento è il suo certificato di nascita, Paul Dye Jr., nessun secondo nome, nato il 29 dicembre 1925 a Springfield, Ohio. Da giovane, per distinguerlo da suo padre, Paul Francis Dye, le persone lo chiamavano usando le sue iniziali, P.D., che poi divenne “Petey” e, infine, “Pete”.

C’è un ritaglio da un giornale del 1936 dal titoloIl ragazzo è un oratore politico, con una foto di Pete all’età di dieci anni che ruba la scena con un discorso durante una manifestazione democratica per la rielezione di Franklin Delano Roosevelt come presidente. “Pensate che sia per Roosevelt perché lo è mio padre”, sono le parole di Pete che riporta l’articolo, “ma non è questo il motivo. La realtà è che nel 1932 molti bambini venivano a scuola senza avere addosso abbastanza vestiti da tenerli al caldo. Ora, quando vado a scuola, questi ragazzi hanno tutti i vestiti e tutto il cibo di cui hanno bisogno. Ecco perché sono per Roosevelt”. Da adulto, Pete cambierà opinione politica, ma non perderà mai quel fervore populista. Suo padre era un assicuratore e direttore del locale ufficio postale. Per passione faceva anche l’architetto di campi da golf. Nel 1922 ha costruito un campo a nove buche, l’Urbana Country Club, dove Pete avrebbe imparato a giocare molto presto e sarebbe diventato un buon giocatore. Come studente di terza superiore all’Urbana High nel 1943 ha vinto il titolo individuale dell’Ohio High School Golf Championship. Altri ad aver vinto quel titolo sono il celebre giornalista James Scotty Reston nel 1927, l’architetto di campi da golf Jack Kidwell nel 1937 e Jack Nicklaus nel 1956. L’anno seguente Pete non difende il suo titolo: i documenti riportano che aveva lasciato la scuola per arruolarsi. A maggio del 1943 aveva accumulato venti ore di addestramento in navigazione aerea, e aveva intenzione di unirsi al corpo dell’Aeronautica Militare. Ma suo padre voleva che prima finisse le superiori, come rivela in questa lettera: “Manderò Paul Jr. alla Asheville School, ad Asheville, in Carolina del Nord, per il suo ultimo anno di Scuola superiore. Studierà materie che lo aiuteranno a entrare in Aeronautica e il suo programma di studi è stato organizzato da me insieme al preside. Negli ultimi tre anni come studente alla Urbana High School ha avuto la media di “Buono”. A luglio del 1942 è stato nominato direttore e supervisore del nostro country club e campo da golf e ha avuto la gestione completa della struttura per gli ultimi 14 mesi. È un bravo meccanico e ha molta esperienza per un ragazzo della sua età. Volevo sottolineare le qualità di questo ragazzo, trattandosi di un lavoratore coscienzioso”. Quando menziono ad Alice il periodo che Pete ha passato come direttore del campo da golf a Urbana, si mette a ridere: «Pete ha sempre sostenuto di essere stato un pessimo direttore. Non aveva idea di quello che stava facendo». Si iscrive ad Asheville ma, come rivela in Bury Me in a Pot Bunker(la sua autobiografia del 1995), “con grande dispiacere di mio padre, ad Asheville non facevo altro che giocare a golf e divertirmi”. Abbandona al secondo semestre e si unisce all’Esercito, venendo assegnato al corpo dei paracadutisti dopo l’addestramento di base, prima a Fort Benning, in Georgia, e poi a Fort Bragg, nella Carolina del Nord. In entrambe le basi diventa il responsabile del mantenimento del campo da golf. A Fort Bragg scappa via di nascosto più volte per andare a giocare a Pinehurst, a una cinquantina di chilometri circa di distanza, e una volta si unisce a un gruppo che includeva il “re” dei grandi magazzini James Cash Penney e l’architetto di Pinehurst, Donald Ross. In seguito Pete ammetterà di essere rimasto molto più colpito da Penney che da Ross. Dye passa i suoi ultimi sessanta giorni a Fort Bragg nel carcere militare, per aver falsificato un permesso al fine di assistere alla festa di diploma di suo fratello minore Roy alla Asheville School. In seguito, riceve l’ordine di prepararsi a prendere parte all’invasione del Giappone, ma lo sgancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e su Nagasaki, con la conseguente resa nipponica del 15 agosto 1943, annullarono l’operazione. «Sono certa che il presidente Truman abbia salvato la vita di Pete», sostiene Alice.

16 ottobre 1946

Mancandogli un diploma di scuola superiore (la Asheville gli conferirà il diploma onorario nel 2002, datato 1944), al termine della Grande Guerra Pete si iscrive al Rollins College, vicino a Orlando, grazie al GI Bill, una particolare legge/programma che prevedeva lo stanziamento di fondi per ex militari che desideravano proseguire gli studi superiori. Qui incontra Alice Holliday O’Neal, studentessa al terzo anno di Medicina e golfista di successo che quell’estate aveva vinto l’Indiana Women’s Amateur. Alice era affascinata dall’ironia e dal bell’aspetto di Pete, ma la metteva a disagio il suo atteggiamento un po’ irresponsabile. “Come molti altri militari”, scrive Alice nella sua autobiografia del 2004, From Birdies to Bunkers, “voleva divertirsi un po’. Una volta ha vinto una scommessa saltando da un ponte sul vagone di un treno merci e facendosi trasportare fino a Tampa. E poi, spesso, saltava le lezioni e per andare a giocare a golf”. Ma per Alice era affascinante. Dopo essersi frequentati per un anno, Pete regala ad Alice un anello con inciso “16 ottobre 1946”, in ricordo del giorno in cui si erano incontrati. Alice si laurea nel 1948, torna nella sua nativa Indianapolis e vende assicurazioni per la Connecticut Mutual, scelta piuttosto inusuale per una donna a quei tempi. Quella stessa primavera Pete lascia il Rollins e si iscrive alla Ohio Northern University. Ben presto però lascia anche quell’Istituto e fa ritorno a Urbana, dove diventa anche lui un assicuratore, per la società di suo padre, la Northwestern Mutual. Pete e Alice continuano a frequentarsi per due anni mentre giocano a golf a livello agonistico. Lui arriva alle semifinali dell’Ohio Amateur nell’estate del 1949 e si qualifica per lo US Amateur a Oak Hill in Rochester, nello Stato di New York, perdendo per 5 e 4 al terzo turno contro il favorito Sam Urzetta. Nel frattempo, Alice vince altre due volte l’Indiana Women’s Amateur (nel 1948 e nel ’49). Vincerà questa competizione per nove volte, l’ultima nel 1969. Nella primavera del 1949 Pete si reca a Indianapolis, presumibilmente per incontrare i genitori di Alice – spera lei – e chiedere la sua mano. Invece gioca tre giri di golf. «E il matrimonio?», chiede esasperata Alice. «Non nella stagione golfistica», taglia corto Pete. Il loro fidanzamento verrà annunciato solo a dicembre del 1949 e si sposeranno il 2 febbraio del 1950, il Giorno della Marmotta (una festa popolare americana e canadese). Nell’album, tra i ricordi, c’è un telegramma che Pete spedì ad Alice, con un’unica parola: “Marmotta”. «Era la sua proposta di matrimonio?», chiedo ad Alice. «Non me lo ricordo. Qual è la data?». All’inizio non la trovo, ma poi la noto stampata in un angolo: 30 gennaio 1950. Soltanto tre giorni prima della cerimonia. Alice scuote la testa: «Non mi ricordo di cosa si trattasse. È stata mia madre a fissare la data delle nozze».

Si sposano a casa dei genitori di lei a Indianapolis, tengono il ricevimento al vicino Woodstock Country Club, passano la luna di miele a Orlando e poi si stabiliscono a Indianapolis, dove Pete inizia a rappresentare la Connecticut Mutual. Alice lascia la società per concentrarsi sulla famiglia e sul golf. Il loro primo figlio, Perry O’Neal Dye, dal nome del padre di Alice, nasce a settembre del 1952. Il loro secondo figlio, Paul Burke Dye, ora conosciuto come “P.B.”, nasce a luglio del 1955. Entrambi sono da tempo architetti di campi da golf di successo; nel 1992 P.B. amplierà il campo di famiglia, l’Urbana Country Club, portandolo a 18 buche.

Dalle polizze ai fairway

Il socievole Pete è un venditore nato. Nel 1954 viene accettato alla Million Dollar Round Table, associazione che riunisce le migliori Compagnie di assicurazione, un risultato ragguardevole in un periodo in cui le polizze che si sottoscrivevano erano poche. Mantiene quella posizione per i quattro anni seguenti. «Pete passava la gran parte delle sue serate con gli studenti di Medicina alla Indiana Medical School, cercando di convincerli a sottoscrivere un’assicurazione sulla vita», ricorda Alice. «Giocava a golf durante il giorno e lavorava la sera». Vince competizioni locali e regionali, ma perde la finale dell’Indiana Amateur nel 1954 e 1955. Riuscirà finalmente a vincerla solo nel 1958, al Morris Park Country Club di South Bend, con i suoi genitori tra il pubblico. A Indianapolis Dye passa anche molto tempo come presidente del Comitato di manutenzione del campo da golf al Country Club di Indianapolis, seguendo persino corsi di agronomia alla Purdue University per ampliare le sue conoscenze. Gli piace andare al club e fare piccole modifiche all’architettura del campo. «Aveva cominciato a spostare i bunker, piantare alberi e fare altri cambiamenti, facendo impazzire i membri», racconta Alice. «C’era una parte di uno dei fairway dove l’erba si era seccata, perché Pete aveva esagerato con il diserbante per liberarsi delle erbe infestanti e migliorare il manto erboso; i soci chiameranno per sempre quella zona “La metà di Dye”».

Nel 1959 Pete annuncia che si era stancato di lavorare nel ramo assicurativo e che voleva mettersi a costruire campi da golf. Alice non è preoccupata dell’eventualità di un drastico calo nelle loro entrate. «A quei tempi, quando l’agente vendeva una polizza, riceveva il 50% del premio il primo anno e poi un altro 5% ogni anno per tutto il tempo in cui si occupava di quella polizza. Pete era riuscito a costruirsi una buona solidità economica e avevamo abbastanza denaro da permetterci di costruire campi da golf e continuare a pagare i conti». Pete pubblica sul giornale un annuncio in cui si definisce “Architetto di campi da golf”. Ma il padre di Alice, un avvocato, gli spiega che, così messa, si tratta di pubblicità ingannevole, perché non ha una laurea in Architettura. Da allora, Dye si è sempre definito “un progettista di campi da golf”.

Ci sono molti articoli nell’album a indicare che fin dall’inizio Alice era intimamente coinvolta nella nuova attività. È presente nelle fotografie scattate durante la costruzione dei campi. Ha presentato all’amministrazione di Indianapolis il piano da 200.000 dollari per la costruzione del North Eastway Golf Course (oggi Sahm Golf Course), di cui ha tracciato un percorso che va a formare una stella di David, in modo che, sostiene lei, ogni terza buca riporti alla club house, permettendo ai giocatori di comprarsi un altro hot dog e di usare i bagni. Era lei che faceva le illustrazioni dei percorsi che comparivano sulle prime pagine dei giornali. Che, a loro volta, scrivevano di campi da golf “progettati da Alice e Pete Dye”. Sono convinto che progettare campi fosse il sogno anche di Alice, oltre che di Pete «Ho assecondato questa attività perché era quello che mio marito voleva fare», mi risponde. «Ma mi piaceva. E mi piace ancora».

Nicklaus: avversario e collaboratore

L’eredità di Pete Dye sta in buona parte nella schiera di coloro che oggi sono architetti di campi da golf e che hanno iniziato sotto la sua ala: progettisti come Bill Coore, Tom Doak, Tim Liddy, Greg Muirhead, Lee Schmidt, Bobby Weed e molti, molti altri. «Chiunque abbia mai lavorato per Pete e Alice li considerava come se fossero i suoi genitori. Non a caso essi trattavano tutti come se fossero i propri figli», racconta il figlio di Pete e Alice, Paul Burke. «Era come se avessero un centinaio di figli. Ho perso il conto di quanti ragazzi mi hanno raccontato che Pete portava loro il pranzo – un panino e un pacchetto di patatine – e che poi si ritrovavano il pacchetto già aperto, con metà patatine mangiate. Papà è così». Ma negli album di ricordi dei Dye non si parla molto di questi “Dye-scepoli”, fatta eccezione per Jack Nicklaus, che è presente in molte pagine, inizialmente come avversario di golf. Dye e Nicklaus si affrontano nel Labor Day del 1957, quando Pete, 31 anni, e Jack, 17 anni, campione del National Jaycee, partecipano a un evento di beneficenza organizzato dal padre di Pete all’Urbana Country Club. La star è Sam Snead e l’allora campione dell’Ohio Amateur Bob Ross Jr. completa il quartetto (nel 1946 Pete lo aveva sconfitto, vincendo il campionato dello Springfield Country Club). “Slammin’ Sammy” gira in 70 colpi (il par del campo), Pete in 71, Jack in 75 e Bob in 76. Quell’estate era la seconda volta che Pete batteva Nicklaus. Pochi mesi prima si erano qualificati per lo US Open a Inverness, me nessuno dei due era riuscito a passare il taglio. Però Pete aveva completato i primi due giri in 12 sopra par, collocandosi alla pari con Arnold Palmer e superando Jack di otto colpi.

L’anno seguente Pete gioca di nuovo contro Jack, alle semifinali del Trans-Mississippi Amateur al Prairie Dunes Country Club in Kansas. Prevale Jack per 3 e 2, avviandosi a vincere il titolo. Nel 1964, su insistenza di Pete, Alice si qualifica per lo US Women’s Amateur al Prairie Dunes, principalmente per sperimentare il campo, la cui conformazione è simile a quella di un links. Come Pete, Alice arriva alle semifinali e, come Pete, viene sconfitta da una futura leggenda, JoAnne Gunderson (nella Hall of Fame “JoAnne Carner”), che però perde in finale contro Barbara McIntire.

Jack racconta di aver incontrato Pete di nuovo nel 1965, a The Golf Club, un esclusivo campo privato a est di Columbus (in Ohio) che Pete stava costruendo per l’assicuratore Fred Jones (che, tempo prima gli aveva procurato il suo primo vero lavoro, vendere assicurazioni sulla vita). Pete aveva invitato Jack al cantiere per dare dei suggerimenti, ma Jack gli aveva risposto che non sapeva nulla di progettazione. «Pete insistette: “Sai più di quanto pensi”. Così ho accettato», racconta Jack. «I lavori erano ancora agli inizi. La seconda buca si trovava su una collina. Non mi piaceva. E continua a non piacermi. La terza, un par 3, aveva un green circolare con quattro bunker circolari tutt’intorno. Gli ho detto che sembrava Topolino e gli ho suggerito di spostare un bunker verso il ruscello vicino e di modificare la posizione di altri due. Ho dato dei suggerimenti per altre tre o quattro buche e Pete mi ribatteva che erano ottimi consigli. Ero lusingato. È stato allora che Dye mi chiese se avessi voluto fare da consulente per alcuni progetti e io gli risposi che se fossimo riusciti a metterci d’accordo sarebbe poteva essere un’ottima idea».

I due si incontrano di nuovo al Masters del 1966, quando Jack aveva un gruppo di amici dell’Ohio intenzionati a costruire un nuovo campo privato su un terreno a nord-ovest di Columbus. Pete dà un’occhiata alla proprietà e disegna un percorso da 18 buche per Jack. Il progetto non verrà mai realizzato, ma nel 1974, con un percorso diverso ma sullo stesso terreno, il sito diventerà il Muirfield Village Golf Club. All’inizio del 1967 compare su una rivista una pubblicità dove si annuncia che Jack si offre “per la progettazione di un limitato numero di campi da golf”. C’è una foto di Jack in piedi su un campo da golf, mentre sta indicando qualcosa con il dito, di fianco a Pete, che tiene in mano dei disegni. L’immagine evidenzia in modo inequivocabile la collaborazione tra i due, eppure Pete non viene citato nella pubblicità. In articolo del 1969 suGolf Digestviene riportata una dichiarazione di Pete, che afferma: «Jack è il mio consulente. Ma nei giornali, invece, sembra sempre che io sia il suo assistente, o qualcosa del genere». Alice però assicura che Pete non si è mai curato di queste quisquilie. «Pete non è mai stato orgoglioso», spiega «A lui interessava soltanto costruire campi da golf, come un bambino che vuole giocare con la creta. Voleva creare qualcosa di speciale, di unico». Pete e Jack hanno collaborato soltanto a quattro progetti, e il primo è stato il migliore, lo storico Harbour Town Golf Links di Hilton Head Island, inaugurato nel fine settimana del Giorno del Ringraziamento del 1969 con la penultima competizione del PGA Tour di quel decennio, l’Heritage Classic. È cominciata letteralmente con il botto, con Jack che fa un top al tee shot d’apertura tirando la palla a solo una trentina di metri per via di un colpo di cannone partito proprio durante il suo downswing, ed è finita con un altro, con Arnold Palmer che vince con tre colpi di vantaggio. «La nostra parcella era di 40.000 dollari», ricorda Jack. «Ci ho rimesso. Ho fatto 23 viaggi con il mio aereo e non sono mai stato rimborsato, ma lavorare con Pete ed Alice è stata la migliore esperienza della mia vita. Ci ho rimesso anche con gli altri progetti. Alla fine, gli ho detto: “Pete, ti voglio bene, ma mi costi troppo”. Così ognuno è andato per la sua strada».

Grandi campi per grandi tornei

Oltre ad Harbour Town, Pete ha avuto la fortuna di costruire altri campi che sono stati inaugurati da grandi tornei, proprio il genere di pubblicità che ogni architetto desidera. C’è stato il TPC Sawgrass, costruito per il suo vecchio amico Deane Beman, allora commissario del PGA Tour. Il suo design estremo è stato rivelato durante il Players Championship del 1982, vinto da Jerry Pate, che, dopo aver imbucato il putt finale, ha spintonato Beman e Pete nel lago lungo il green della diciottesima buca, per poi gettarvisi a sua volta. «Speravo che un alligatore se li sarebbe presi tutti e tre», commenterà Lee Trevino ai giornalisti. C’è stato anche il PGA West di La Quinta, in California, estremamente difficile, con un bunker profondo sei metri chiamato “La faglia di Sant’Andrea” (o da qualche spiritoso “La faglia di Pete”), presentato al mondo del golf con lo Skins Game del 1986, a cui hanno partecipato Nicklaus, Palmer, Trevino e Fuzzy Zoeller (che ha vinto la maggior parte del premio in denaro. E poi c’è stato l’Ocean Course di Kiawah, costruito per la Ryder Cup del 1991 e completato appena in tempo per la grande sfida di settembre. Ancora oggi viene ricordato come il campo di quella che in America è stata definita “la Guerra sulla Spiaggia”.

I segreti del mestiere

Ho incontrato Pete Dye per la prima volta nel 1982, all’incontro annuale degli Architetti di Campi da Golf a Palm Beach, invitato da Geoff Cornish, con cui avevo scritto a due mani una storia dell’Architettura dei campi da golf intitolata The Golf Course. «Sei troppo giovane per aver scritto quel libro», mi ha ammonito Pete quando ci hanno presentati. L’anno successivo, nel 1983, l’ho intervistato durante la costruzione del Firethorn Golf Club a Lincoln, nel Nebraska, una meraviglia a basso costo sviluppata da Dick Youngscap, che più avanti si affermerà a livello nazionale costruendo il Sand Hills Golf Club nel bel mezzo dello Stato. Ho ancora la registrazione della mia intervista con Pete, incentrata sulle sue soluzioni alternative al rough tradizionale. «All’inizio tutti pensavano che le waste area sarebbero sempre state costituite soltanto da sabbia», spiegava in quella chiacchierata Pete. «Ma quello non è mai stato l’intento originario. L’idea era di creare zone brulle che ricordassero il paesaggio scozzese: alcune completamente prive di erba, altre con cespugli di erica o di ginestra spinosa. Non devono assomigliarsi tutte». In quella occasione avevamo parlato anche dei bunker. «Più ci penso», sosteneva, «più credo che dovrei fare bunker che siano o molto grandi o molto piccoli. Più sono grandi, più la loro manutenzione è semplice. Ma sono i bunker piccoli quelli su cui è divertente giocare».

Pete non ha mai smesso di reinventare la sua arte. Ogni volta che andavo a trovarlo in un qualche cantiere aveva sempre un nuovo segreto da mostrarmi. Al French Lick, nel sud dell’Indiana, ad esempio erano i fairway “multifunzionali”: ampi corridoi di fienarola a crescita lenta per il golfista medio, che preferisce che la palla sia adagiata nell’erba, sollevata dal terreno sottostante, affiancati da stretti corridoi di agrostide, con un lie più difficoltoso di erba molto corta. Pete aveva pensato che per grandi competizioni come il PGA Championship si sarebbe potuto restringere i fairway semplicemente lasciando crescere la fienarola ed evitando di sostituire le zolle. A Kiawah, invece, ha installato reti da pollaio per creare bordi verticali lungo gli ostacoli d’acqua. E per i divisori di Brickyard Crossing, il campo del circuito di Indianapolis che ha ristrutturato, ha usato grandi blocchi di cemento appena rimossi dalla pista. Mi mostrava i segni lasciati dagli pneumatici sul cemento, lunghe scie di gomma nera. Nel 1993, invece, mi ha fatto andare in Florida per mostrarmi un nuovo “sistema di drenaggio efficiente” che aveva installato all’Old Marsh Golf Club, a nord di West Palm Beach. In sostanza si trattava di tubi di scarico collegati ad alcune pompe, un’idea che aveva ricavato da articolo di una popolare rivista di meccanica. Stavamo sotto la pioggia sferzante dell’uragano Gordon, guardando l’acqua vorticare nei pozzetti di raccolta dei fairway e scorrere via come in una vasca da bagno che si svuota. Poi Pete mi ha fatto guidare fino al Seminole Golf Club per fare un confronto. Camminavamo sui fairway inzuppati d’acqua, dove sperava di installare lo stesso sistema, quando la tempesta è arrivata al suo apice e ha iniziato a flagellare la costa. I nostri ombrelli si sono disintegrati e ci tenevamo ai tronchi delle palme per evitare che il vento ci portasse via. Quando la pioggia si è attenuata il campo sembrava un lago e siamo rientrati faticosamente in club house. Era vuota e non c’era corrente in tutta la zona. Abbiamo strizzato alla bell’e meglio i vestiti e siamo rientrati a casa di Pete. Alice ha preparato la cena e abbiamo mangiato a lume di candela.

A un passo dalla fine

Quella è stata una delle volte in cui Pete sostiene di aver beffato la morte. Un’altra è stata il suo ben noto intervento per rimuovere un tumore al colon nel 2002. «Era un venerdì 13», ricorda Alice. «Pete era convinto che nessun’altro sarebbe stato operato quel giorno. Dopo l’intervento gli dissero che avrebbe dovuto sottoporsi alla chemioterapia. Lui rispose che voleva continuare a lavorare sui suoi campi da golf, così avrebbe assunto una dose ridotta di chemio ogni venerdì e sarebbe ritornato al lavoro ogni lunedì. Fece così per un anno. Non perse i capelli né ebbe altri effetti collaterali. E funzionò. Non ebbe mai una recidiva». Sei anni dopo, nel 2008, Dye sfiora di nuovo la morte. Stava costruendo Dye Fore, il suo quarto campo da golf al resort Casa de Campo, nella Repubblica Dominicana. Mentre alla 10 esaminava il tee da campionato da un promontorio che si affacciava sul fiume Chavon, fece un passo indietro senza accorgersi del dirupo retrostante e vi precipitò, rotolando per circa sessanta metri giù per una scarpata disseminata di rovi fino a quando non rimase impigliato in un arbusto. La squadra di manutenzione dovette calarsi e riportarlo in salvo. Pete aveva lividi e graffi, ma niente ossa rotte. Non disse nulla dell’incidente ad Alice se non settimane dopo, quando il dolore alla schiena era diventato intollerabile. Lei lo convinse a farsi visitare, e in seguito si sottopose a un piccolo intervento correttivo.

L’eredità di Dye

Mentre scorro le ultime pagine di un album, cerco di mettere lo stile architettonico di Pete in prospettiva. Confido ad Alice che mi sembra che Pete costruisse sempre buche per mettere alla prova il giocatore bravo, il professionista; e che il ruolo di lei fosse quello di ricordargli continuamente che anche il giocatore medio doveva essere in grado di affrontare i suoi campi da golf. «Se guardi i suoi percorsi, c’è quasi sempre la possibilità di un approccio libero davanti al green», sottolinea Alice. Ma continua: «Sono io quella che ha messo il muro di assi a protezione del green della 13 all’Harbour Town. E sono sempre io quella che gli ha chiesto di trasformare il green della 17 del TPC Sawgrass in un isolotto». «E sei tu quella che ha inserito quel bunker impossibile proprio davanti al green della 17 al Whistling Straits?», chiedo. Alice annuisce.

«La caratteristica fondamentale della carriera di Pete», riprende, «è che aveva il coraggio di fare ciò che nessuno osava fare: per ogni campo da golf che costruiva, si assumeva qualche rischio. E quello successivo non aveva mai nulla in comune con il precedente. Ogni green che costruiva era qualcosa di nuovo. Non tirava mai fuori un disegno da un cassetto, perché non avevamo alcun progetto dei suoi green. Ognuno veniva dalla sua testa, era una nuova idea, adeguata al luogo in cui doveva sorgere. Ha fatto lui tutti i green di tutti i suoi campi da golf». Alice incrocia le braccia e guarda Pete. «È davvero dura vedere quella mente brillante che svanisce», ammette lei. »Tutta quella creatività…, tutta quell’immaginazione…». Seduto nel mio ufficio, una settimana più tardi, ascolto la registrazione e mi trovo in disaccordo su un aspetto: sì, quella mente brillante sta svanendo, ma non la sua creatività e la sua immaginazione. Entrambe sono ancora lì, ben visibili in ogni campo da golf su cui ha lavorato (145 progetti originali e 24 ristrutturazioni). Alcune cose sono rivisitazioni di idee scaturite dai luoghi in cui ha giocato quando gareggiava. Non c’è dubbio, ad esempio, che Camargo abbia ispirato i suoi bunker costruiti su livelli diversi a lato dei green. Oppure, il rough di gramigna indiana alla buca 2 di Pinehurst lo ha spinto a utilizzare una varietà di erbe per creare manti erbosi dalle diverse consistenze. E i suoi giri di golf allo Scioto a Columbus e al Broadmoor a Indianapolis, ma anche i progetti di Donald Ross, si riflettono nei bunker ingannevoli posti ben prima del green e che invece sembrano situati proprio a ridosso. Nei suoi lavori metteva un tocco particolare: un bunker con le pareti erbose al The Golf Club, probabilmente il primo di tutta l’America; ostacoli d’acqua al di sopra dei fairway al The Honors Course; i tee rialzati al Kingsmill; il par 4 con triplo fairway al River Course del Blackwolf Run.

Ci sono sequenze incomparabili di buche, come le otto poste proprio sopra il Mar dei Caraibi al Teeth of the Dog. Ma più di tutto c’è la ricorrente architettura a linee e angoli in ogni luogo strategico, dove devi affrontare un ostacolo per aprirti la strada al colpo successivo. Nessuno di noi ci sarà più fra un centinaio di anni, ma sono sicuro che le opere di Pete saranno ancora qui, studiate da futuri giocatori, amate dagli storici e conservate come esempi classici di campi da golf da orgogliosi membri di club. E questo è un pensiero felice. Nessun finale triste, l’ho promesso.

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