ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

In fondo si tratterebbe solo di riportare la faccia del bastone square all’impatto sulla palla.

Questo ci hanno insegnato e questo è il semplice segreto alla base di uno swing corretto: che è poi l’oggetto del desiderio del nostro popolo di Carrellanti.

Tutto qui? Sì, tutto qui. O quasi, perché poi ci sarebbe da curare il finish, continuando dopo l’impatto e ruotando il corpo verso l’obiettivo.

Ma insomma, se la faccia non arriva aperta o chiusa, gran parte del lavoro è fatto. E bene. Semplice, no? E allora come mai si è sempre alla ricerca di uno swing decoroso?

Come mai la colonna sonora di una passeggiatina in campo pratica con l’orecchio teso ai commenti dei forzati ivi istallatisi è un rosario di imprecazioni, un cantico dolente, una litania disperata?

Perché – di questo almeno sono personalmente convinto – lo swing è un viaggio che, come tutti i viaggi, ha una partenza certa, ma un itinerario e soprattutto un arrivo tutti da scoprire.

E se non si torna esattamente al punto di partenza, sono guai. Dal take away al finish ci corre un percorso quasi esistenziale. Uno parte e stacca.

Si tratta semplicemente di allontanare il bastone dalla pallina. Come direbbe Sherlock Holmes? Elementare, Watson.

Sì, se Watson è inteso come Tom (già sullo stacco dell’altro Watson, Bubba, ci sarebbe qualcosa da dire), visto che sulla pulizia del suo movimento, quel fuoriclasse ci ha costruito, fra l’altro, otto vittorie nei Major e la nona, a Turnberry 2009, gli sfuggì solo al play-off a quasi 60 anni.

Dunque si parte per il viaggio, staccando: ma il problema è che i piloti del viaggio siamo noi e pertanto, pur in quel tragitto di pochi centimetri possiamo inserire qualcosa di compromettente. Troppo esterno? Troppo interno? Polsi indebitamente ruotati che aprono la faccia? Polsi carichi? Polsi scarichi?

Domanda ulteriore: in uno spazio-tempo così piccolo possono succedere così tante cose? Sì, ahinoi: è provato. Come è provata la reiterata tendenza di molti fra noi a replicare lo stesso difetto nell’intervallo fra un “tagliando” e l’altro col maestro.

Ma diamo per scontato, in uno slancio di ottimismo, che siamo stati capaci una buona volta di staccare il bastone come si deve e procediamo nel viaggio.

Ora comincia la salita: bisogna portare l’attrezzo in alto. Già: ma dove e quanto? Attorno al corpo, non semplicemente in verticale. Dando ampiezza al movimento, ma senza andare in overswing.

Non piegando le braccia, ma non per questo irrigidendole come se dovessimo aggrapparci a una fune per salvarci da un baratro.

Fatto? Fingiamo di sì per poter andare avanti nella cronaca di questo accidentato itinerario. Siamo arrivati (faticosamente) all’apice. È ora di scendere.

È il momento del downswing, quello che, se restassimo negli ideali binari del movimento corretto dovrebbe appunto riportare la testa del bastone square all’impatto.

Ma non bisogna lanciarlo, il bastone. Bisogna mantenere la faccia dietro le mani il più a lungo possibile e, nel frattempo, i fianchi devono ruotare.

E poi, la zolla. Gesù, la zolla! Se non la fai, la tua palla è senz’anima (oppure non la fai perché è l’anima senza palle e hai paura di andare a colpire il terreno: il dibattito è aperto). Se la fai troppo presto, trattasi di flappa, castigo dei Carrellanti.

Ma, siccome siamo nei dintorni del Natale, vogliamo essere buoni ed esagerare nell’ottimismo: perciò immaginiamo di aver fatto bene in sequenza take away, back swing e down swing.

Perciò ne è scaturito un contatto palla-zolla da manuale. Finito allora il viaggio?

Macché! Bisogna continuare, estendere le braccia e non raccoglierle, sovrapporre i polsi, e sentire lo shaft che circumnaviga la zona-cervicale mentre il corpo resta in equilibrio in modo che prenda forma un finish degno di questo nome.

Ecco, il viaggio è concluso. E io, solo per averlo descritto, mi sento esausto. Eppure stiamo parlando di cosa? Tre-quattro secondi in tutto?

Più o meno così. Ma dall’esito di quel brevissimo viaggio dipenderà il nostro umore.

Siamo normali? Penso proprio di no. Ma quanto è bello non esserlo.

Buone feste a tutti.

Illustrazione Giovanni Rolandi

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