Il Duca di Windsor e Dino Buzzati, Walter Molino e Bing Crosby: quasi un secolo di storia e di storie fra gli alberi del Parco Reale dove la tradizione è parte della storia stessa del Golf italiano.
di Roberto Zoldan
Un mattino di maggio sulla terrazza sovrastante il putting green aspettando gli amici per un match play a coppie. Un caffè servito con garbo al tavolo prima di affrontare la 1, i green alti e difesi da bunker come piaceva agli architetti di un tempo. Sul percorso che s’infila nel maestoso Parco Reale ecco le insidie della 7, par 3 che punisce i troppo ambiziosi, la lunghezza della 8, la spettacolare 9 colorata d’oro da tutti i tramonti dell’estate. La 13 finisce accanto alla vecchia club house ed è una palestra per ogni avventura golfistica. La 15 e la 16, lunghissime sotto un cielo lombardo poco cangiante ma aperto a 180° come un’Esplanades des Invalides, sono viali delle rimembranze di mille battaglie con swing di tutte le razze. Qui il golfista non è mai né troppo giovane né troppo vecchio, né alto né basso di handicap. Qui chi ama il golf è, e basta.
Golf Club Milano at Monza Park: gli arbusti fioriti, le corone di glicine bianca e viola, il primo profumo dei tigli, la piscina aperta. I palmarès alle pareti evocano nomi gloriosi pur sbiaditi in nove decenni, protagonisti di epiche performance. Sono i nomi dei dilettanti azzurri degli anni dorati: Franco Bevione (il più titolato, tre volte campione internazionale, quindici volte nazionale), Carlo Bordogna, Pica Alfieri, Israel, Peregrini, Mondolfi, Mario Franco, Eduardo Bergamo, Silvio Marazza. Alcuni dei prestigiosi trofei conquistati dai colori del Circolo in tanti anni sui campi nazionali, sopravvissuti a un incendio, sono conservati nel salone.
Golf Club Milano, cornice di nove Open d’Italia, l’ultimo l’anno scorso. In campo è preteso il rigore. «Ma a volte anche qui bisogna lottare per ottenerlo», commenta il direttore Roberto Carità che calca questi fairway dal 1960. Prima il gioco e le sue regole, i valori etici ed estetici; poi il resto, le relazioni, le affinità elettive, il buon ristorante, il barman di mestiere, alta professionalità in segreteria, il personale impeccabile.
Quest’anno compie i 90, un numero di anni con il magico moltiplicatore 9 (the Nine Divine) amato dagli esoteristi e contemplato in tutta la numerazione del gioco: 18 le buche, 72 il par del campo, 108 i millimetri del diametro della buca, 36 i punti Stableford. E dunque autocelebrazione sia: con una partecipata louisiana a due, gara della simpatia e degli affetti, seguita da una cena stellata by chef Morelli con circa trecento commensali, il GC Milano ha festeggiato il compleanno il 16 giugno. Danze con ladies in lungo, molti smoking bianchi e sordina agli ottoni, come in un “Sogno d’una notte di mezz’estate”.
Tre percorsi nel cuore del Parco
I tre percorsi di 9 buche ciascuno si snodano su un terreno che è patrimonio dei comuni di Milano e Monza (l’Ente Parco riscuote un congruo affitto annuale) e occupano 94 dei 732 ettari del parco cintato più grande d’Europa, progettato da Maria Teresa d’Austria, che vi volle anche la reggia, e ingrandito dagli architetti di Napoleone. Il primo e il secondo percorso sono il tracciato classico di gara. Il terzo, tecnicamente più impegnativo, è sinuoso con green piccoli e ben difesi. Alcune modifiche hanno allungato molte partenze Championship sia per le donne che per gli uomini. Dopo un fortunale che due anni abbatté fa più di 200 alberi, è stata fatta una ricca piantumazione a spese del Circolo.
Sul “poggio di partenza”
La storia del GC Milano è parte della storia del golf italiano. Il percorso fu proposto nella primavera del 1927 ai cento soci del Rotary Club Milano dal senatore del regno Giuseppe Bevione, appassionato golfista anglofilo frequentatore dei primi campi allestiti in Italia dalle comunità anglosassoni, come quello dell’Acquasanta a Roma, di Menaggio, Bogliaco, Firenze, Stresa. Vi si giocava il golf, uno sport che in Italia aveva poco seguito, contrariamente al calcio anch’esso importato dall’Inghilterra e diventato già popolare. Nei primi decenni del Novecento i circoli italiani, una ventina, erano tutti a 9 buche, spesso in luoghi di villeggiatura, affiliati in una Federazione che non aveva più di duemila iscritti. Il più numeroso era l’Acquasanta, che ne vantava 400, un’enclave della Roma nobile e degli stranieri residenti nella capitale. Ci giocarono il conte Ciano, genero di Mussolini, nel secondo dopoguerra monsignor Marcinkus dello Ior e i reali di Spagna. Durante il fascismo i nomi inglesi furono italianizzati secondo le direttive del Minculpop (Ministero della cultura popolare). Sul “poggio di partenza” (il tee shot o, meglio, teeing ground) salivano soltanto personaggi di alto rilievo sociale.
Nobilissimi esempi
Il presidente onorario del Golf Club Torino, accanto all’Ippodromo di Mirafiori, negli anni Venti era Sua Altezza Reale il Duca d’Aosta, quota annua 300 lire. Al GC Roma (Acquasanta) presidente era il conte Alfredo di Carpegna. Entratura (fondo perduto) 1500 lire, quota annua 700. Per un giorno, un green fee, 30 lire. Il Milano, presidente Piero Pirelli, richiedeva 1000 lire di entratura e una quota annua di 800 lire. Il GC Napoli era presieduto da SAR il Duca di Spoleto. Il col. Carlo Rasmus presiedeva quello di Merano, aperto tutto l’anno tranne quando c’era neve, cioè per sei mesi. A Palermo coordinava il principe di Petrulla e Segretario era il marchese di Notarbartolo di Montallegro. In Sicilia si giocava soltanto da novembre a maggio, quando l’erba era verde. In estate, era impossibile irrorare il fairway per mancanza d’acqua.
La Fagianaia di Vittorio Emanuele II
Fu costituita dunque una Società milanese del Golf, capitale sociale 350 mila lire, che stipulò un contratto di subaffitto (30mila lire annue) per un’ampia area di prati e boschi con l’Ente Milano-Monza Umanitaria, come si chiamava allora, che attendeva alla gestione dell’intero Parco Reale. La villetta ai margini del percorso, detta “La Fagianaia di Vittorio Emanuele II”, ristrutturata dall’architetto Pietro Portaluppi, divenne la casa del circolo e il campo fu realizzato in due anni. All’inaugurazione erano presenti i cronisti sportivi dei pochi quotidiani milanesi. Annunciò la notizia anche il periodico monzese Il Cittadinonel numero in edicola l’11 ottobre 1928.
L’attività sportiva arrivò a pieno regime nel 1929. Primo presidente fu Piero Pirelli. All’inizio il campo contava 9 buche, disegnate dall’architetto inglese Gannon e da Cecil Blandford, ex maggiore dell’esercito di Sua Maestà britannica, per anni poi rigoroso Segretario del circolo. Le sorgive di San Giorgio davano acqua allo stagno della 1, ora 14. Il socio neofita rimaneva a lungo in campo-pratica per l’apprendimento prima di accedere al fairway, gli si chiedeva rigore nell’abbigliamento come previsto dalle regole di Saint Andrews e una buona educazione sportiva e personale. I maestri insegnavano, nel silenzio del player, la ricerca di una costante intesa tra braccio e mente. I caddie venivano dai dintorni, ragazzi che portavano la sacca in cambio di ambìti compensi per ogni giro, irrobustiti poi dalle mance.
I milanesi arrivavano con le prime auto sportive. Quando la benzina fu razionata si viaggiava in tram fino al capolinea di Monza, poi ancora in tram fino al Parco e, infine, con una carrozza alla Fagianaia, oasi di pace nella tempesta che passava sull’Italia e sul mondo. Nel 1947 la vita dell’associazione fu sospesa. L’Italia distrutta dalla Guerra non aveva tempo per le ore libere e vennero a mancare anche i fondi per le spese correnti. Un gruppo di soci raccolse poi tre milioni di lire che consolidarono le casse del circolo presieduto da Leopoldo Targiani.
Il Gran Premio “Città di Milano”
Nel 1953 nacque il Gran Premio per dilettanti Città di Milano, 72 buche medal su tre giorni, 36 di seguito l’ultimo giorno, premio giunto quest’anno (2018) alla 67a edizione. Fu la prima grande gara ufficiale per dilettanti riconosciuta dalla Federazione e imitata poi da tanti circoli. Le prime tre coppe erano in oro, una per categoria, offerte dal conte Castelbarco Albani, vice presidente della Harry Winston, una robusta holding commerciale newyorchese, e furono vinte nelle tre categorie, dicono gli annali, rispettivamente da Marius Bardana, Pierluigi Martinelli e Leopoldo Pirelli. Pesavano due chili la prima, un chilo la seconda e cinquecento grammi la terza. In argento dalla seconda edizione, le coppe conservano le linee eleganti tracciate dal prestigioso gioielliere Faraone, che imitò il modello di un antico trofeo inglese. Sono ancora tra le più belle assegnate in competizioni italiane; e negli anni nei quali i golfisti in Italia erano appena 2500, furono strette tra le mani dei più noti campioni d’allora come Schiaffino, Cerda, Dassù, Croce.
Nel 1955 le buche divennero 27, tre percorsi da 9, e arricchirono un itinerario di disegno classico e pianeggiante ma difficile e lungo, con molti ostacoli a difesa dei green frontali. Vi si giocò l’Open di quell’anno vinto da Toni Cerda che si fermò come maestro al circolo.
Nel 1958 cominciarono i lavori per la nuova club house, una delle più belle d’Europa, si diceva allora, progettata dagli architetti Vietti e Buzzi, presidente Gianni Albertini, poi per vent’anni a capo della Federazione nazionale. Nel 1962 la Casa del Circolo si spostò dalla Fagianaia, ormai fuori mano, atmosfera Old England con un pizzico di “lumbard”, alla sede attuale, costruita tutta a spese dell’associazione sportiva, alla quale si accede soltanto da porta San Giorgio (Villasanta).
I tempi dei mashie e dei niblick
I giocatori di Monza acquistavano l’abbigliamento in corso Venezia a Milano, dal socio Brigatti. Lì si trovavano spencer (smoking corti) di qualità, pullover e sweater (maglioni) scozzesi e inglesi. Abiti in homespuns (a quadri) inglesi o scozzesi originali. Palle e bastoni con speciali impugnature. Nei primi anni si giocava con i mashie (schiacciatori), così suddivisi: general iron e mashie mid iron (equivalenti ai ferri 3, 4 di oggi), mashie (ferro 5), spade mashie (ferro 6, di moda attorno agli anni Trenta), niblick mashie (ferro 7). Tutti superati dai ferri moderni di diverse gradazioni, oggi forgiati in serie, di leghe metalliche perfette frutto della ricerca aerospaziale. La varietà di fogge e materiali permetteva al campione di adattare gli strumenti alle proprie necessità e, data la componente fortemente individualistica del golf, anche alla propria struttura fisica e alle piccole manie a volte determinanti per il successo.
Duchi, sportivi e cantanti
Giocarono sul campo di Monza il duca di Windsor, Ray Sugar Robinson, Bing Crosby, il tenore Giuseppe di Stefano, il disegnatore Walter Molino (chi ricorda le sue copertine della Domenica del Corriere?), lo scrittore-giornalista Dino Buzzati (Il deserto dei tartari), i giornalisti Marco Mascardi, esteta del bon ton in campo e nella vita, e Rolly Marchi, araldo dello sci nazionale. Si vedono spesso in campo i tennisti Lea Pericoli e Ivan Lendl. Scrisse Buzzati, evocando le sue uscite al Milano: “Il golf è senza dubbio una delle cose più geniali e divertenti che l’umanità abbia escogitato. L’inventore dell’handicap è stato sicuramente un uomo degno di un premio Nobel”.
Una mattina del 1936, Gigino Luzzatto, un mito di quegli anni, fu raggiunto a Parigi da una telefonata del socio Toti Fraschini che gli annunciava l’arrivo in Italia dell’attore americano Douglas Fairbanks Sr., eroe del cinema muto, appassionato golfista, marito di Mary Pickford. Diretto a Roma per il campionato dilettanti, Luzzatto avrebbe fatto tappa a Milano; insieme lo avrebbero accolto alla stazione e il giorno dopo sarebbero scesi in campo tutti e tre a Monza. Il divo giocava 7 di hcp e i tre divennero amici. «Gran bel campo il vostro», disse la sera a cena al Savini, il miglior ristorante di Milano. «Il vostro re abita a due passi, davvero un privilegio. Gioca spesso».
Il duca di Windsor, alias Edoardo VIII, che nel 1937 rinunciò al trono d’Inghilterra per sposare una divorziata americana, amava il gioco lento. Alla 16 (allora era la 3) si fermò cento metri dietro Dadi Bergamo, che lo ospitava con due laconici inglesi. Il non re per amore sembrava imbambolato, fermo per l’ennesima pausa. Bergamo osò: «Allora David, giochi o no? Tocca a te». Il duca raggiunse la sua palla con una piccola corsa: «Scusami, mi fermo a guardare il percorso e questi cedri del Libano, così maestosi…».
Ray Sugar Robinson, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, amava i cavalli, le auto da corsa, il golf e i piccoli animali. Andarono a prenderlo al Plaza a Milano, lo portarono al Parco di Monza sulla sua Cadillac cabrio rosa, gli fecero vedere auto, cavalli, scoiattoli e, infine, il campo. Camminava dominando con eleganza la massa di muscoli, quel gigante sembrava sognasse di volare con la sua pallina. Alla 12 finì nel bosco a cercarla e vi rimase a lungo. Il socio ospitante lo raggiunse e lo vide immobile a pochi metri da un leprotto spaventato. Ray battè le mani e lo fece fuggire, poi sorrise felice.
Un giorno si presentarono al Milano anche i campioni d’automobilismo Gigi Villoresi e Alberto Ascari. Ai box scendevano da una Formula 1, passavano sotto la pista e arrivavano in campo-pratica a piedi.
Trasferte vincenti (quasi sempre)
Tre uomini del Milano erano nella squadra tricolore che vinse a Roma, nel 1953, un prestigioso incontro pentagonale con le compagini di Francia-Spagna-Svizzera-Portogallo. Fu il primo successo del dopoguerra. Alcuni quadrangolari furono giocati a Madrid, in Svizzera e a Parigi. Gli incontri internazionali più emozionanti cominciarono negli anni Ottanta col presidente Roberto Livraghi, tessitore di relazioni golfistiche che lo avrebbero portato al vertice della Federazione europea e di quella italiana. Come il match play del 1988 a Wentworth, uno dei templi del golf d’oltre Manica. Capitano era Carlo Bordogna from Italy contro John Walker della compagine locale. A Saint Andrews i dilettanti del Milano andarono nel 1990, ’93, ’96. Poi a Chantilly e al Royal Golf Club de Belgique di Ravenstein, che aveva tra i soci lo stesso Livraghi. Dodici contro dodici, match play singoli e doppi. Persero una sola volta a Saint Andrews quando Giorgio Casarotti, arrivato one down sul tee shot della 17 (la famosa Road Hole) lanciò generosamente la palla (affinché vincessero i padroni di casa?) nella piscina dell’albergo accanto.
Tutti a cena la sera nel Royal & Ancient, tavoli da quattro. Gli scozzesi loquacissimi anche in campo non dissero una parola finché il Captain propose che il pranzo fosse offerto dal circolo e il vino dagli ospiti. Ancora silenzio. Quando Bordogna diede con piacere l’assenso, scoppiò un applauso fragoroso e un infinito cicaleccio. Nel match di ritorno a Monza, il consumo di whisky degli scozzesi fu pari all’intero consumo dell’anno. Diedero fondo alle trenta etichette di Scotch, le stesse marche che il barman Roberto Perego esita ancora oggi nello scaffale del bar. Degli incontri interclub sopravvive il triangolare Milano-Ascona-Varese.
I mitici spogliatoi
Giovanni Zappa ha passato gli 80 e per quasi quarant’anni ha gestito gli spogliatoi maschili. Handicap 10 virgola qualcosa nei tempi d’oro, due figli e due nipoti professionisti, coi fratelli Ezio e Pietro formò una piccola dinastia cresciuta in questo Circolo al quale è riconoscente. Fu consultato negli anni da numerosi architetti progettisti che non sempre (per guadagnare spazio e, quindi, moneta) hanno rispettato le sue indicazioni per realizzare spogliatoi efficienti: forte aerazione, docce con una piccola anticamera, armadietti ad altezza d’uomo, di legno, meglio di ciliegio perché non assorbe odori. Come quelli del Milano che sul frontespizio hanno il nome inciso nell’ottone, certo più gratificante del numero. Tra quelli che ricorda, Zappa ritrova la sua locker-filosofia nei circoli dell’Acquasanta e dell’Olgiata, a Villa d’Este e alla Mandria, luoghi di solide tradizioni. Tra i più recenti cita Barlassina, Castelconturbia e Bogogno.
I luoghi sono fatti dalla gente che li frequenta ma anche da chi la riceve. Giovanni Zappa dava sempre il benvenuto ed era pronto per ogni cortesia. Come quella volta, correva l’anno 1965, allorché l’americano Bing Crosby, quello di White Christmas, il motivo più venduto del mondo, mentre si allaccia le scarpe con gli spike d’acciaio ricorda di aver lasciato il portafogli nel suo pigiama all’Hotel Gallia di Milano. Zappa vola in Vespa all’albergo e quando Crosby è ormai sulla 1, Giovanni può mettergli nelle tasche posteriori, accanto allo score, anche i suoi preziosi dollari.
Bing era uno dei cantanti più ricchi d’America, ma di braccio corto. Giocava spesso a soldi, singolo o in coppia. Quando era sopra canticchiava con voce melodica di buca in buca; era muto quando andava sotto. Una volta arrivò alla 18, un par 4, ormai perdente e pallido. Sul tee propose ai due avversari: «Quitte ou double», perdita doppia o parità, tutto lì. Il suo terzo colpo dal fairway fu un disastro ma la pallina rotolò fino all’asta, vi battè contro e andò in buca. Il volto gli s’illuminò e guardando in alto intonò Pennies from heaven, Spiccioli dal cielo, uno dei suoi più grandi successi.
Un palmarès davvero ricco
Due stelle al merito sportivo e tanti allori. Nove Open d’Italia, l’ultimo con un montepremi di sette milioni di dollari. Dalla metà del secolo scorso a oggi le squadre ufficiali del Milano hanno conquistato sei campionati nazionali a squadre maschili e cinque femminili. Hanno vinto tre campionati internazionali maschili, sei campionati nazionali maschili, sei femminili e altri tornei in Italia e all’estero. Lorenzo Scalise è stato il miglior dilettante italiano nell’edizione 2016 dell’Open d’Italia disputata a Monza e vinta da Chicco Molinari. Il Senior Pigi Vigliani ha colto prestigiosi allori nella sua categoria in Italia e all’estero. Sotto i riflettori del Circolo c’è ora Charlotte Cattaneo, campionessa europea Under 14 del 2017, vincitrice anche di molte gare in Italia e all’estero. Ha accanto Carolina Melgrati, prima al Campionato nazionale Cadette 2017. Tournament winner è Marco Crespi, pro anche in campo-pratica.
Professionisti di successo
Il corpo insegnanti comprende l’Italian Golf Academy di Nicola, Carlo, Luigi e Roberto Zappa, commentatore su SkyTv e fino al 2016 direttore tecnico della nazionale femminile. Furono tutti allievi di Carlo Grappasonni. Per le loro golf clinic in trasferta possono contare su una quindicina di colleghi di vari circoli. Altri pro Luciano Grappasonni, Leandro Vergari e Alberto Giolla. Ambrogio Crippa è starter storico e da anni in blazer con bottoni logati dà il benvenuto agli ospiti. Lavora al Milano dal 1948 e rappresenta anch’egli storia e tradizione del Circolo. Promuove e offre le ambìte coppe del Trofeo Ambroeus, gara medal contemplata nel campionato sociale. Ogni anno il Circolo ospita manifestazioni benefiche. Vengono favorite anche iniziative non golfistiche come la raccolta fondi per il reparto di Ematologia Pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza.
Un Circolo dalla storia prestigiosa
Armando Borghi, 51 anni, presidente da nove del Golf Club Milano, fa gli onori di casa: «Celebriamo i novant’anni con il compiacimento di appartenere a un Circolo dalla storia prestigiosa, collocato in una splendida cornice naturale. Abbiamo ospitato tre Open di fila contribuendo a dare al golf una dimensione mediatica al fine di promuoverlo come disciplina accessibile a tutti. In Italia ci sono più di trecento circoli e postazioni di gioco, con un’offerta segmentata che ne favorirà certamente la diffusione; e di questo siamo felici. Noi puntiamo però su giocatori con una buona maturità sportiva e padronanza del gioco, che facciano le 18 buche in non più quattro ore e mezza. Quindi bando al gioco lento e all’ignoranza dell’etichetta in campo, quella di base. Accogliamo con piacere nuovi soci e pur rinunciando ai green fee di fine settimana teniamo il bilancio in attivo, come quello del 2017. Ci siamo trovati a un appuntamento, il 90° compleanno, che è stato la festa di tutti».