ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

La mattina con Renato, la notte con Francesco: il week end appena passato ha imposto maratone televisive sul divano a molti di noi golfisti italiani, alle prese con le differenze di fuso orario. Se poi uno (e scusate il riferimento personale) ci somma l’obbligo professionale di seguire anche lo spezzatino di partite del campionato di calcio, il risultato è quasi devastante, almeno dal punto di vista oculistico.

Ma certo che ritrovarsi alla domenica a rimbalzare da un capo all’altro del mondo con due italiani in lotta per le prime posizioni è una sensazione elettrizzante. E’ vero che la solita sindrome da ultimo giro, già sottolineata nel post della settimana scorsa, ha colpito nuovamente i nostri, smorzando qualche entusiasmo e ridimensionando entrambi i risultati finali, ma la validità di fondo delle prestazioni resta, specie per un ragazzino esordiente come Renato, che deve fare l’abitudine alle tensioni dell’ultimo tratto di strada, quando ogni colpo pesa tremendamente e il ferro tra le mani scotta (per non dire del putter…). C’è da mangiar pane (anche duro, a volte) per crescere, ma il ragazzo sembra avere l’appetito giusto. E intanto la classifica nella Race To Dubai (47°) si consolida.

Il picco di emozione, manco a dirlo, l’ha regalato Francesco con quella hole in one alla 16 del Phoenix Open, nel tripudio di 30 mila (dicesi trentamila) spettatori assiepati nell’enorme tribuna, che ha fatto subito il giro di tutti i siti web del mondo, non solo golfistici. Quei trentamila scalmanati erano lì ad aspettare un nuovo idolo, dopo l’exploit firmato nel 1997 su quella stessa buca da un tale chiamato Tiger Woods, attualmente disperso nelle nebbie della ricostruzione di uno swing scombinato dall’incessante andirivieni tra campo e clinica. Francesco gli ha offerto quello che speravano e loro, in spregio all’etichetta ma in omaggio alla spontaneità, lo hanno ripagato con quel lancio incredibile di bottigliette che ha replicato proprio il rituale riservato all’allora giovane Tigre 18 anni fa.

E’ una specie di consacrazione, un ingresso nell’Olimpo che si consegna agli annali e farà memoria, da rievocare a ogni edizione del torneo. Chicco dimostra di sentirsi perfettamente a suo agio in America: pur alle prese con una concorrenza più folta e agguerrita, non ha perduto un grammo della sua solidità. Ha passato tutti i tagli, ha sommato già 228mila dollari di guadagni in tre gare (in Europa ci sarebbero voluti almeno tre top five per pareggiare un conto del genere) è salito all’ 83° posto in Fedex Cup, rimontando, in tre gare, 91 posizioni. Continua a piangere un po’ solo la classifica mondiale, dove, nonostante tutto, è sceso ancora (è 58esimo, ora) sempre per la compensazione fra i piazzamenti da un anno all’altro. Il vero obiettivo del momento, si sa, è rientrare nei primi 50 in tempo per il Masters, cioè un paio di settimane prima di Augusta. Serve un altro scatto, la regolarità non basta: 37° alla Hawaii, 10° all’Humana Challenge, 22° a Phoenix, dove il 64 del terzo giro è stato vanificato dal 72 (+1) del quarto in cui, insolitamente, non è stato il putt a punirlo quanto qualche imprecisione nel gioco di ferri, sua arma letale. Ma l’impressione è che siano rose e, dunque, fioriranno.

Spine, invece, sempre pù spine e niente rose per Matteo Manassero che proprio non intravede la luce in fondo al lungo tunnel in cui s’è cacciato da mesi. Il Desert Swing, per lui, è stato un incubo: tre tagli mancati con un inquietante totale di +19 nei sei giri disputati. Per ritrovare un suo score sotto i 70 bisogna riandare al 16 novembre, quando incasellò un 69 all’ultimo round in Turchia. In un anno solare, due soli top ten. Ma non è più questione di piazzamenti: è questione di scores, altissimi, che Matteo riconsegna a ogni uscita, mancando il taglio per tanti, troppi colpi, scivolando immancabilmente agli ultimi posti della classifica dei primi due giorni, gli unici nei quali quei risultati gli consentono di giocare. La crisi è conclamata, evidente e fa male. Come fa male pensare che ora stia viaggiando alla volta della Malesia con una valigia di dubbi e di incertezze: proprio in Malesia, nel 2011, vinse il torneo con -16, un colpo meno di Bourdy e due, pensate un po’, di Mc Ilroy. Dove è finita la naturalezza con cui quell’adolescente metteva in fila il mondo, nonostante la modesta lunghezza dal tee? Dove è finito il sorriso che sottolineava il piacere di giocare e la fiducia di ricavare sempre qualcosa di buono da quei colpi scagliati senza pensarci troppo ? Sono lì, purtroppo, dentro quel tunnel di dubbi e paure che altri campioni si son trovati ad attraversare: e si può pensare a Stenson, a Duval (che non ne è mai più uscito), allo stesso McIlroy nel primo anno di ferri Nike e prima di mandare all’aria il matrimonio annunciato con la Wozniacki che aveva già in armadio l’abito da sposa.

Gioco spietato, il golf. Per informazioni, citofonare a casa Woods.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here