“Questa non è una pipa”,
recita la didascalia di una delle più famose opere di René Magritte, maestro del surrealismo in pittura. Eppure al centro di quel quadro troneggia proprio una bella pipa, a simboleggiare il mistero della realtà, l’eterno conflitto fra apparenza e sostanza.
Mancando per l’ennesima volta
un colpo al green, per aver scelto un ferro troppo corto (a proposito: chi ha detto che repetita iuvant? A me pare che l’eterno ritorno dello stesso tipo di errore in campo dimostri esattamente il contrario) mi son balenati, come un’improvvisa visione, proprio quel quadro e quella enunciazione. E mi è venuto da concludere, amaramente: “Questo (cioè io) non è un giocatore di golf”, a dispetto di tutte le apparenze: abbigliamento corretto, dotazione regolamentare di ferri, carrello da Carrellante al seguito. Tutto, a prima vista, mi identificava come un giocatore di golf. Tutto tranne un dettaglio: il gioco.
Siccome la filosofia
è stata la mia passione giovanile, oltre che la Facoltà scelta all’Università, dopo aver estratto con qualche fatica dal bunker la pallina, senza riuscire a recuperare con un solo putt il colpo perduto, ho cominciato a ruminare sofismi assortiti. Fino a concludere che niente come il golf riesce a mettere in crisi il principio d’identità. Perché non c’è giro che non marchi la distanza fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere.
È una caratteristica unica,
non comune agli altri sport. Intendiamoci: le giornate storte capitano in qualsiasi disciplina. Quale che sia lo sport praticato, nessuno è sempre uguale a se stesso. Ma non succede, ad esempio, nel tennis di non riuscire un giorno a buttar la pallina dall’altra parte della rete. Nel golf, invece, quante volte viene la tentazione di buttare sacca e tutto nel primo laghetto a portata di lancio dopo una serie di colpi inauditi? Eppure le condizioni date sono stabili: la palla è ferma e gli avversari non possono influenzare il nostro gioco (se non psicologicamente), mentre in tanti altri sport la loro forza, la velocità di palla, la superiore prestanza fisica o la migliore qualità tecnica possono fare la differenza. Nel golf, no. Nel golf siamo soli noi, la pallina, i ferri, il campo. E conosciamo bene i nostri ferri, conosciamo ovviamente la pallina, conosciamo a fondo il campo, quando non ci troviamo in trasferta.
Cosa ci manca?
Ci manca,purtroppo, la cosa che è insieme la più semplice e la più complicata: conoscere noi stessi (rieccola, la filosofia). Così non fosse, dovremmo sapere che è inutile restar corti sul putt o illudersi di coprire con gli stessi ferri le stesse distanze di qualche anno fa o ancora aggrapparci alla speranza di un colpo perfetto per volare quel lago che difende il green, quando sarebbe consigliabile un cauto lay up. La realtà è che mentre nella vita, lavorativa e no, sappiamo esattamente chi siamo, cosa siamo in grado di fare e cosa no e, con l’esperienza degli anni, ci districhiamo egregiamente tra esigenze, problemi e perfino emergenze varie, nel golf non abbiamo mai la percezione precisa delle nostre possibilità. È, per l’appunto, la profonda crisi d’identità indotta in noi dal confronto, sempre variabile e quasi mai sereno, con il gioco e con il campo.
Che poi, in fondo,
per tornare all’immagine del famoso quadro di Magritte, ci basterebbe poco: ci basterebbe poter comprare una sola lettera, una consonante, aggiungerla al suo enunciato e poter affermare di noi stessi: “Questo non è una pip(p)a”. Ci accontenteremmo. Ma raddoppiare quella “p” non è cosa da poco: implicherebbe una continuità di rendimento che è spesso superiore alle nostre forze. Alla fine dei conti, insomma, quale è la nostra identità golfistica? Giocatori, no (siamo onesti). Carrellanti, sì. E in fondo anche felici di esserlo, nonostante tutto.
Da “Il Mondo del Golf Today” n° 305 – ottobre 2019