Che cosa era successo, come poteva essersi ridotto in quello stato?
Vedersi, quasi distaccato da sé, a girare, tornando spesso sullo stesso posto, come tormentato.
Lui e quei suoi tre amici, o quasi, forse persone appena conosciute cui si era legato per un compito da svolgere e niente più, ma che ora sembravano partecipi delle sue inquietudini.
Insomma, sembravano mossi da qualcosa di simile al suo rovello, solo appena più rallentati, appena meno agitati, eppure anche loro giravano in quel modo.
Dov’era finito? Che male aveva fatto? Era perduto, vittima di un malefico inganno? Non che lui fosse un tipo dalle grandi letture, soprattutto andando indietro, verso i classici.
Ma, insomma, le medie e poi almeno il liceo li si fanno quasi tutti, e un po’ di Dante ci casca addosso per forza.
E rispunta quando meno te lo aspetti; e lui stesso, in quel momento di smarrimento, ora che non capiva più bene dove fosse, chissà da che angolino della memoria andava a ripescare paragoni danteschi per somigliare se stesso e quegli altri tre ad anime in pena. “Sarà il delirio”, cominciava a pensare.
La coscienza attenuata, quasi perduta, gli stessi sensi annebbiati.
I suoni diventati tutti una specie di impasto unico, un accordo venuto male, di cui non si poteva più distinguere l’origine e soprattutto la possibile soluzione armonica.
La vista, che si pretendeva in quel momento impegnata al massimo grado, non era però più guidata dalla ragione.
Seguiva, con perfezione folle, una formica che si affiancava alle altre e poi usciva subito dalla fila, distingueva di un filo d’erba la parte iniziale più bianca e via via quella più verde, ma non percepiva più l’insieme.
Come chi conosce male una lingua e afferra un po’ di parole ma non riesce a comporre il senso delle frasi.
E il tatto limitato al contatto tra i piedi e il terreno, forse proprio in quel momento aveva calpestato un sasso aguzzo, mentre un’erbaccia, passata chissà come attraverso la calza spessa, gli pizzicava il polpaccio.
Eppure continuava così, ritrovava un’altra volta lo stesso filo d’erba, credeva perfino di aver rivisto la stessa formica.
Mentre l’angoscia aumentava, a quella condizione di smarrimento si aggiungeva il peso dei secondi che passavano.
Ecco, tra tante percezioni che erano svanite, una si era fatta invece tremendamente intensa: il tempo lo sentiva correre come se fosse lui stesso uno di quegli orologi digitali in cui si vedono i millesimi di secondo senza riuscire mai a leggerne davvero uno.
Un tormento, un martirio.
E per un attimo le forze che cedono, l’angoscia che sovrasta, il silenzio.
Gli altri amici, o persone appena conosciute che fossero, poco prima che le sue forze cedessero, forse avevano fatto un gesto, lanciato un grido.
Qualcosa era successo, ma nel suo stato di prostrazione emotiva non poteva rendersene conto.
C’era stato il suo crollo, qualche minuto o qualche secondo, lui non lo capiva più.
I sensi che si fermano, la mente che si assenta.
E da lì, come una brace che fa ripartire la fiammella da sotto le ceneri, quel minuscolo ricordo precedente al buio che si riaffaccia.
E diventa un appiglio, una speranza.
Lo porta per mano, il ricordo di quei gesti e di quelle grida, in fondo ai quali sembrava di sentire una gentilezza cavalleresca, un empito umano, perfino un calore.
E da quel pensiero via via una nuova consapevolezza.
Piano piano la coscienza torna a mettere le cose al loro posto, le formiche tra le formiche, i fili d’erba con i loro simili.
I passi si accordano di nuovo col ritmo del cuore, la mente si rischiara, la pace non è quella della fine, ma è una condizione felice, fattiva.
Non girerà più in tondo, imparerà di nuovo a orientarsi.
Qui hai già guardato, vedi sotto quel cespuglietto, con calma, senza lasciare spazi inesplorati.
E tutto andrà bene. Li avete fatti passare quelli dietro, ecco stanno arrivando e vi stanno anche ringraziando con un gesto della mano.
Il calore è tornato, qualche altro passo, qualche altra occhiata, ora data con esperienza, con saggezza, e vedrai quella pallina bianca.
Con la marca e il numero che cercavi.