In questo 2019 ormai al tramonto, tutte le strade portano …a Rory. Il suo finale di stagione è stato strepitoso: solo in ottobre ha inanellato una vittoria (al WGC in Cina), un secondo posto nello Skin Game in Giappone e, sempre in Giappone, un terzo posto nel torneo che ha visto Tiger Woods uguagliare, con l’82° successo sul PGA Tour, lo storico record di Sam Snead. Ma non è che il resto dell’anno sia stato da meno: altri tre successi americani, con dieci Top Ten su sedici tornei.

 

Numeri alla mano, il titolo di “Player of the Year” assegnato sui voti dei suoi stessi colleghi, risulta ampiamente meritato. Era sembrato strano che non fosse andato a Koepka (che se n’era un po’ lamentato) vincitore di un Major e mai sotto il quarto posto negli altri tre: ma alla fine, e giustamente, è stata premiata la maggior continuità di McIlroy. Potremmo discutere per anni se i successi nei Major debbano prevalere su tutto. Ma, specie con il nuovo calendario che li condensa nel periodo aprile/luglio, giocarli bene significa essere in forma poco più di tre mesi in una stagione ben più lunga e ricca di appuntamenti importanti, nei quali, quasi incomprensibilmente, Koepka tende a sparire. Se dovesse valere il “criterio-Major” cosa dovremmo concludere? Che, ad esempio, un Lucas Glover, che ha vinto l’US Open 2009 ma due soli altri tornei in carriera, è più forte di Lee Westwood, 43 successi senza uno Slam?

 

Comunque, Major o non Major, Rory McIlroy secondo me è il leader tecnico assoluto e per distacco (naturalmente escludendo quel fenomeno “paranormale” chiamato Tiger Woods). È sempre stato il più forte per potenza, qualità e varietà di colpi. Gli ho visto fare mille volte dei colpi attorno al green che riuscivano solo a uno come Severiano. E per quei colpi puoi allenarti anche una vita, ma se non li hai, non li hai. Vogliamo spaccare il capello in quattro? Allora diciamo che tatticamente è meno smaliziato di quanto dovrebbe essere. È sempre all’attacco, a tavoletta, fidandosi del suo smisurato talento. Ma nel golf il talento a volte funziona magari al cinquanta per cento, perché i giorni non sono tutti uguali. Bisogna sapersi adattare alle giornate meno felici e portare a casa uno score accettabile giocando male, come sanno fare benissimo Tiger Woods o Justin Rose. Se, invece, regali nove buche con troppi errori a gente come loro – o come Dustin Johnson, Justin Thomas o Brooks Koepka – non ce la fai a recuperare, perché la concorrenza è spietata e di altissimo livello. Ecco dove dovrebbe migliorare. Infatti, in questa che è stata la sua miglior stagione da quattro/cinque anni in qua, c’è la macchia nera di Portrush, dell’Open giocato su un “suo” campo, compromesso da un quadruplo bogey alla buca 1 del primo giorno e da altri errori iniziali che non ha saputo recuperare. E che gli sono costati il taglio (per un colpo!) nonostante al 79 del giovedì avesse fatto seguire uno splendido 65 il venerdì.

 

Ecco: quando gioca bene, è inarrestabile perché la sua cifra tecnica è nettamente superiore. Ancora però dovrebbe imparare a vincere anche quando, a tratti, gioca male. Tiger, di cui è molto amico, gli potrebbe insegnare qualcosa al riguardo. E, a proposito, è divertente registrare il commento di Rory all’82esima vittoria di Woods (al ritorno dall’ennesimo intervento chirurgico, per giunta). «Credo di avere una discreta carriera alle spalle», ha raccontato il campione nordirlandese. «Però ho fatto un po’ di conti: se da adesso, per dieci anni consecutivi, io riuscissi a vincere sei tornei a stagione, che sarebbe una cosa eccezionale, non riuscirei comunque a pareggiare il suo record. Lui è qualcosa di incredibile». Che, detto da uno che la pallina l’acchiappa abbastanza, non è male.

Da “Il Mondo del Golf Today” n° 306 – novembre 2019

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