Anche se è passata qualche settimana,

non si può non tornare sulle emozioni del Masters. Francesco le ha rese straordinarie subito, con i suoi tre giri quasi immacolati. Tiger le ha rese memorabili la domenica con la rimonta che ha rinnovato il suo mito. Parliamoci chiaro: solo un anno e mezzo prima era ridotto quasi a un fantasma, sfinito dal dolore che gli negava persino la normalità di una vita sedentaria (altro che swingare a oltre 100 miglia orarie). Ci sono stati tanti “Come Back” nella storia dei vari sport: campioni zavorrati dall’età che sprigionavano l’ultima scintilla (tipo Nicklaus, campione Masters a 46 anni). Ma nessuno mai, in alcuno sport, aveva dovuto rimontare quasi da zero una situazione personale e fisica così complessa. Aggiungendo poi che il Nicklaus del 1986 se la doveva vedere con avversari più giovani sì, ma di una decina d’anni, non di più. Perché all’epoca l’età d’oro di un golfista era fra i trenta e i quarant’anni. Non c’erano campioni-ragazzini come i ventenni di oggi con cui misurarsi.

È anche vero, nello specifico di questo Masters,

che è stato proprio un 36enne a metterlo alla prova, costringendolo alla rimonta in extremis. E quel 36enne, naturalmente, è Francesco nostro, l’unico a passare il taglio in tutti e quattro gli ultimi Major disputati con un primo, un terzo, un sesto e un 25esimo posto (all’US Open). Avesse vinto ad Augusta, come stava per succedere, sarebbe entrato nella storia, perché solo quattro giocatori hanno conquistato da un anno all’altro British Open e Masters: e si chiamano Palmer, Watson, Ballesteros, Woods. Cioè leggende vere. Qualche sconsiderato ha commentato, via social, che Chicco ha ceduto o che aveva giocato d’attesa sulle prime 9. Pure stupidaggini. La realtà è che, dopo tre giri praticamente perfetti, Molinari la domenica è stato meno preciso dal tee, costretto da subito a recuperare situazioni delicate. Il “vecchio” Molinari avrebbe rischiato un 40/41 a metà giro; il nuovo ha chiuso le prime 9 in par e in testa. Bisognerebbe rendersi conto che è un’impresa incredibile vincere in America, su quel campo (dove i più potenti si ritrovano un ferro corto in mano per attaccare, ad esempio, l’eagle sui par 5) e, soprattutto, giocando con Tiger Woods nell’inferno che il suo popolo scatena a ogni colpo. La pressione rischia di favorire l’errore in qualsiasi momento come, purtroppo, è accaduto sul tee della 12, la buca che ha visto quest’anno finire in acqua quattro sui sei giocatori degli ultimi due team (Poulter e Koepka, prima; Francesco e Finau, poi). Quando mai si è visto Tiger che, con un ferro 9 in mano, non attacchi un’asta? È successo lì, in quel turning point stregato. Woods non ha rischiato niente, sapendo di avere davanti due par 5 e mezza Giacca se l’è portata a casa. Ma, sia pure con un po’ di amaro, Augusta ha confermato la nuova dimensione mondiale di Chicco che, oltretutto, dimostra di non volersi affatto accontentare di questi ultimi dodici mesi di trionfi. E pensare che ha cambiato ferri e palla a inizio anno…

Voglio chiudere con un cenno

all’apertura alle donne che l’Augusta National ha fatto, ospitando il giro finale del neonato Women’s Amateur. Tutti venduti i ventimila biglietti a disposizione e grande gioco da parte delle ragazze. Bravissima la nostra Caterina Don, dodicesima sulle trenta rimaste in gara. Brave comunque, e perfino un po’ sfortunate, Alessandra Fanali, Virginia Elena Carta e Alessia Nobilio (esclusa d’un’inezia dall’emozione del giro conclusivo). Promettono benissimo e meritano un grande applauso. E sarebbe bello se, in un altro periodo dell’anno, l’iconico campo voluto da Bobby Jones si aprisse anche alle professioniste del LPGA Tour. Tanto l’incasso è assicurato.

Da “Il Mondo del Golf Today” n° 301 – maggio 2019

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