In pieno inverno, nei miei pensieri il golf aleggia solo in periferia: troppo preso dallo sci! A febbraio ero a Vail, in Colorado, per i Mondiali. La casa dove stavo dava su uno dei cinque campi di golf della valle e, il mattino, la mia finestra si riempiva di un green innevato solo a chiazze. Che strane coincidenze: a Vail vado per sciare, eppure, per un motivo o per l’altro, irrompe puntualmente il golf, come quella volta, tanti anni fa, quando in un supermercato della vicina Beaver Creek, dove si sono svolte le gare iridate quest’anno, incontrai Jack Nicklaus, il mio idolo di sempre. Non c’erano cellulari né selfie, solo un autografo con dedica ormai sbiadita dal tempo. Quest’anno, commentando lo sci femminile, all’improvviso compare in TV Tiger Woods, volato a Beaver per tifare Lindsey Vonn, la sua amata. Mi sporgo dalla postazione e lo vedo lì sotto, sugli spalti. Non so come ho fatto a rimanere al microfono: Tiger è il mio secondo idolo, dopo Jack! C’era il SuperG., la Vonn sul terzo gradino del podio, Tiger impassibile dietro impenetrabili occhiali da sole. La settimana successiva, per il gigante, la Vonn non è tra le favorite ma, nella seconda manche, scia da favola e Tiger, tornato in tribuna sotto di me, si lascia cogliere in un sorriso dolce, mai visto nemmeno quando imbucava i suoi rocamboleschi putt vincenti!
Mi viene in mente un collegamento spontaneo, immediato: la seconda manche… l’ultimo giro. Forse sono io, pazzamente innamorato di entrambi gli sport, a inseguire nella fantasia analogie e similitudini emozionali che, in teoria, non dovrebbero esistere. Eppure ci sono. Altrimenti, perché tanti sciatori giocherebbero a golf e altrettanti golfisti scierebbero, come Jimenez e Mickelson, che rischiarono la carriera rompendosi le gambe sulla neve? Immerso nel mio mondo bianco, d’inverno seguo a distanza i risultati dei nostri, come l’hole in one di Francesco Molinari che, proprio quando ero a Vail, ha sbancato l’America, o gli exploit di Paratore, golden boy del golf italiano, fantastico fino… al quarto giro! È giovanissimo e imparerà a gestire la pressione che attanaglia quando l’agone ti scaraventa nell’arena.
Ricordate il francese Jean van de Velde, il golfista perdente per antonomasia? L’ultimo giro del British Open l’aveva dato in pasto alla folla con tre colpi di vantaggio sul tee della 18 di Carnoustie. Si perse giocando il driver, finito nel rough di destra, prima di suicidarsi con quel ferro 2 piombato in tribuna quando, invece, con un wedge davanti al green, un approccio e due putt avrebbe fatto sua la Claret Jug con due colpi di scarto. Innumerevoli i racconti dell’ultimo giro che, nella storia del golf, ha decretato campionissimi e condannato alla mediocrità grandi giocatori.
Anche se nello sci tutto si consuma in pochi secondi, sul filo di centesimi come millimetri di un putt sbordato, la seconda manche è una violenza bramata, agognata solo dagli impavidi. Io la odiavo; quanto avrei voluto essere bravo in discesa e affrontarne il panico di picchiate vertiginose pur di non dovermi ripresentare al cancelletto: in discesa e in superG., o la va o la spacca, semmai buona la prima. Non ero un vincente: se ero al comando dopo la prima manche, soccombevo alla tensione, alla paura di vincere (o, come dicono gli psicologi, alla “nikefobia”); se invece ero nelle retrovie, ecco che facevo il miglior tempo, battendo tutti. Ma, a quel punto, solo per il podio, per un piazzamento. Vincenti si nasce e anche se, nel golf, la tensione è un logorìo diluito in molte ore di gioco, il vero campione emerge nei momenti più difficili, imbucando un putt, un approccio, un’uscita dal bunker. Sembra fortuna, ma non è così, pensateci bene. Nella prossima vita mi piacerebbe non veder l’ora che arrivi la seconda manche, il quarto giro, per viverne tutta l’intensità e la sublime bellezza senza paura.