ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

È vero, i vecchi tempi erano duri e oggi, invece, è arrivato il denaro. Ma ha portato con sé anche un’enorme pressione. E non tutti i problemi nei rapporti con il Tour sono stati risolti.

di John Feinstein

Mike Christensen non aveva alcuna intenzione di diventare un caddie quando si è laureato alla Duke University (di Durham, in Carolina del Nord) nel 2000. Il suo sogno era quello di giocare sul PGA Tour, altro che caddie. Poi, nel caso non avesse funzionato, avrebbe comunque avuto la sua laurea in Sociologia.

Da quel 2000, ha giocato per diversi anni in tornei minori, passando molto tempo con Kevin Streelman, uno dei suoi compagni di squadra all’Università. Ma il PGA Tour restava lontano, così alla fine del 2007 Christensen aveva cominciato a pensare a una specializzazione o a trovarsi un lavoro.

«Era semplicemente il momento», ricorda. «Il momento di andare avanti con la mia vita».Solo che poi è intervenuto il destino. Streelman doveva affrontare nuovamente la Qualifying School e il cugino di Christensen, Mark, che avrebbe dovuto fargli da caddie, ebbe un problema all’ultimo minuto. Così Streelman chiese al suo vecchio compagno di squadra di sostituirlo. «Ha fatto cinque birdie alle ultime sei buche e si è qualificato», racconta Christensen. «E quella qualificazione ha cambiato la vita a entrambi».

Abbandonati sotto il diluvio

Streelman voleva Mike con sé per il secondo stage. Christensen ha accettato. Poi le finali. Quando Streelman si è qualificato per il Tour, ha chiesto a Christensen se fosse disponibile ad accompagnarlo sui campi per un anno. «Mi son detto: “Perché no?”. Viaggiare sarebbe stato divertente e c’era anche la possibilità di guadagnare se Kevin avesse giocato bene». Durante il suo primo anno sul Tour Streelman ha guadagnato oltre 1,3 milioni di dollari, il che significa che Christensen ne ha guadagnati circa centomila, molto di più di quanto avrebbe mai realizzato giocando nei tornei minori e, probabilmente, molto di più di quanto avrebbe incassato con un primo impiego nel mondo delle grandi società americane. In più, era divertente. Quindi ha accettato di ritornare per un altro anno. E poi un altro ancora. Andava tutto bene, fino a una domenica pomeriggio del 2010, quando Streelman ha cominciato il giro finale dell’Arnold Palmer Invitational sesto a pari merito, il che significa che avrebbe giocato in uno degli ultimi gruppi. Nel tardo pomeriggio un temporale molto violento si abbatté su Bay Hill, con lampi e tuoni, e i giocatori vennero fatti allontanare dal campo e rientrare, al riparo, in club house. Ma non i caddie. «Ci hanno letteralmente impedito di entrare», ricorda Christensen. «Kevin e gli altri giocatori hanno provato di tutto, facendo notare che stare fuori era pericoloso, prima che “bagnato”. Ma non c’è stato niente da fare: la regola dice che i caddie non possono entrare in club house. Fine della storia. A quel punto probabilmente non c’erano più di venti di noi ancora sul campo, ma non faceva alcuna differenza. È stato spaventoso e umiliante, ero veramente sconvolto».

Quell’abbraccio con Stewart

Mike Hicks, un altro caddie di spessore, invece non si sarebbe sconvolto nemmeno un po’. «Ricordo che a Memphis, al Colonial Country Club, ci hanno letteralmente chiesto di rimanere all’interno di un recinto nel parcheggio finché non fossero arrivati i nostri giocatori», racconta Hicks. «Ad Atlanta non è andata molto meglio: è vero, non c’era un recinto. Così siamo dovuti restare in un posto ben delimitato finché non arrivava il nostro giocatore. Non volevano che nessuno di noi se ne andasse in giro per conto suo. Entrare in club house? Stai scherzando, non se ne parla proprio». Quando ha iniziato a lavorare nel Tour, nel 1981, Hicks era un ragazzone che aveva finito le superiori da tre anni. Il suo primo giocatore è stato Mike McCullough. Sei anni dopo è diventato il caddie di Payne Stewart ed è entrato a far parte di uno dei momenti più memorabili del golf: il putt vincente di Stewart allo US Open del 1999 a Pinehurst. Il ragazzo che salta in braccio a Stewart è Hicks. Dopo la tragica scomparsa di Stewart, Hicks ha partecipato al Tour a stagioni alterne e ora lavora per Vaughn Taylor.

Oggi è tutta un’altra vita

Anche l’altrettanto famoso Tony Navarro si ricorda del recinto a Memphis. Ha iniziato a lavorare nel Tour nel 1978, arrivando al Glen Abbey Golf Club di Oakville, in Ontario (Canada), in autobus da Moline, in Illinois, alla ricerca di un giocatore a cui fare da caddie per il Canadian Open. Un paio di mesi dopo «mi è toccato Slugger White», racconta sorridendo, riferendosi a colui che da molto tempo ormai si incarica di far rispettare le regole al PGA Tour. «Pensavo che avrei viaggiato per un anno o due e poi sarei tornato a casa per andare all’università o mi sarei trovato un lavoro alla John Deere (una delle principali aziende al mondo produttrice di macchine agricole, con sede – appunto – a Moline, ndr). Non sono ancora tornato a casa». Anche Navarro ha avuto grandi momenti come caddie di Jeff Sluman e Greg Norman (tra gli altri). Attualmente lavora con Nick Watney. In carriera ha guadagnato bene e ama i privilegi di cui godono i caddie di questi tempi e che erano impensabili quando era giovane. «È tutta un’altra vita», sostiene Navarro. «Quando ho iniziato, per risparmiare dormivo nei bagni delle stazioni di servizio. Ci entravi di sera, ti chiudevi dentro e ti sentivi al sicuro. Ho dormito anche in auto o tra gli alberi. Se stavi in un motel di solito dovevi dividere la stanza con altri tre. Ora è completamente diverso. Ma non scambierei mai quei giorni con quelli di adesso. Ora i caddie guadagnano molto di più. Sono trattati con molto più rispetto. Ma scommetto che non si divertono come ci divertivamo noi. Ci sono troppi soldi in ballo». E a causa del denaro tutti sentono di più la pressione. Una cosa che non è cambiata durante il Tour è il l’eterno mantra dei caddie: “Se il giocatore sta andando male, licenzierà qualcuno. Può essere sua moglie o il suo caddie. Licenziare il caddie costa molto meno”.

È cambiato tutto

Al giorno d’oggi molti caddie guadagnano stipendi a sei cifre, spesso anche molto di più. Molti sono laureati; alcuni sono giocatori che non erano abbastanza bravi da qualificarsi per il Tour (come è successo per Christensen). Altri, come Lance Ten Broeck, sono ex giocatori del Tour. A volte sono membri della famiglia, come il fratello di Phil Mickelson, Tim. La maggior parte di loro sono bianchi. È tutto molto diverso da com’era in passato. Anni fa molti caddie arrivavano dai club in cui si giocavano i tornei o erano caddie ai club stagionali, come l’Augusta National, che partecipavano al Tour quando il club chiudeva per l’estate. «Molti di loro erano grandi caddie e autentiche personalità», racconta Neil Oxman, che ha fatto il caddie per la prima volta agli inizi degli anni Settanta solo per pagarsi l’università. “Insegnavano il mestiere ai ragazzi più giovani. Ma quando si cominciò a guadagnare più soldi e ai giocatori fu permesso di portare i propri caddie a tutti i tornei, le cose cambiarono». «Acqua corrente e cibo», ci rivela Jim Mackay, che è stato a lungo il caddie di Phil Mickelson e che iniziò a lavorare al Tour nel 1990. «Questi sono i due cambiamenti più importanti. Quando ho cominciato, per mangiare dovevi andare a un chiosco. A volte avevi degli sconti, altre volte no. E nessuno di noi poteva entrare in uno spogliatoio o in clubhouse». Ora i caddie hanno sempre l’accesso agli spogliatoi all’inizio e alla fine della settimana. Alla fine dell’Honda Classic, a marzo, avevano il permesso di fare la doccia dopo che il loro giocatore aveva finito di giocare. E in alcuni tornei (ma non ancora in tutti) hanno anche accesso alle club house. Tutti i tornei devono comunque dare loro riparo in caso di condizioni meteorologiche pericolose. «Sono davvero orgoglioso dei miglioramenti che sono stati fatti per i caddie», ammette Andy Pazder, vice presidente e direttore operativo del Tour. «Penso che abbiamo fatto molta strada e che abbiamo fatto molto per i caddie. Ed è giusto così, se lo meritano».

Molti soldi, ma non tutto oro…

Ma il rapporto tra il Tour e i caddie non è poi così idilliaco. Tre anni fa 168 caddie hanno intentato una class action da 50 milioni di dollari contro il Tour, chiedendo il diritto a un’assicurazione sanitaria e a una parte del denaro che il Tour guadagna dagli sponsor che hanno il loro logo sulle pettorine dei caddie. Il rappresentante dei querelanti è proprio Mike Hicks, ma non perché fosse il promotore della causa. «Quando è stata presentata la causa, io non ero nemmeno nel Tour», sottolinea Hicks. «E quindi hanno deciso di usare il mio nome perché per me c’erano meno probabilità di eventuali ripercussioni». La causa è stata respinta da un giudice all’inizio del 2016; più tardi, quello stesso anno, è stato presentato un appello, che è ancora in corso. Pertanto il Tour non rilascia commenti, poiché, come ricorda Pazder, «Il processo non è ancora terminato». In tribunale, però, il Tour ha sostenuto che di fatto i caddie vengono pagati per indossare i loghi degli sponsor sulle pettorine e che quel compenso è incluso nel montepremi. Gran parte dei giocatori è d’accordo. «Una delle cose per cui uno sponsor paga è proprio quella di avere il logo ovunque, durante la settimana del torneo. E “ovunque” significa pettorine comprese», taglia corto Stewart Cink, numero 139 del Ranking. «Se non venisse data loro questa possibilità, pagherebbero di meno. E il montepremi sarebbe più basso. Noi guadagneremmo meno e, di conseguenza, anche i caddie».

La questione sanitaria

Ma il problema più grande per gran parte dei caddie è l’assicurazione sanitaria. Per anni non ne hanno avuta una e molti di loro, la maggior parte, non avevano i soldi per una copertura privata. Negli ultimi anni il Tour si è offerto di pagare fino a 2.000 dollari all’anno come rimborso per le spese mediche. «Per chi ha famiglia, è una somma irrilevante», spiega Hicks. «Inoltre dobbiamo dichiararla e pagarci le tasse. Quando hai finito di compilare tutti i moduli e di pagare le tasse, non ne vale proprio la pena». Navarro, che ha due figlie, fa presente che paga circa 20.000 dollari all’anno per tutta la famiglia. «Su questo dovremmo fare di più», ammette Cink. «Se un caddie lavora per un certo numero di tornei in un anno, dovrebbe avere diritto, l’anno seguente, a un piano di assicurazione collettiva che lo copra per tutto il tempo in cui segue le competizioni». Quattro anni fa Robert Garrigus, vincitore del PGA Tour, e Tim West, che ha gestito le Pro-Am e i servizi di Corporate Hospitality per oltre venti tornei all’anno per un quarto di secolo, hanno elaborato un piano per un fondo di emergenza per quei caddie le cui famiglie devono affrontare gravi emergenze sanitarie. L’idea era quella di far contribuire i giocatori al fondo, e poi di chiedere ai tornei di contribuire a loro volta con una quota integrativa. Ma il progetto non è mai veramente decollato. «Avevamo raccolto del denaro e stavamo facendo progressi», ricorda West. «Ma poi c’è stata la causa. Non potevamo chiedere ai tornei di istituire un fondo per un gruppo che stava facendo loro causa per 50 milioni di dollari». Il denaro raccolto è ora congelato in un conto presso terzi e West spera che si possa ripartire con il progetto una volta che il processo sarà terminato.

25 dollari a settimana. Tutto compreso

Navarro si è unito alla class action anche per solidarietà verso i colleghi. «Non fraintendetemi», spiega, «le cose potrebbero andare meglio per i caddie, ma tutto considerato non vanno neanche così male, perché ora la situazione è molto diversa. Però ricordo quei giorni quando ci mettevano nei recinti. Siamo onesti, si trattava soprattutto di un fatto razziale». A quei tempi, a gran parte dei caddie veniva garantito un minimo di soli 25 dollari a settimana; e dovevano pagarsi le spese. L’unico modo per guadagnare era sperare che il giocatore si qualificasse e, in quel caso, il caddie otteneva il 5 per cento delle sue vincite. Se il giocatore entrava nella top ten, al caddie spettava il 7%; e se arrivava al primo posto, il 10%. Queste percentuali sono rimaste più o meno le stesse, ma la paga settimanale ora è molto più alta e alcuni dei caddie con maggiore anzianità hanno contratti con i giocatori e guadagnano di più. I montepremi crescevano, e con questi crescevano anche i guadagni dei caddie. Durante la stagione 2016/17, 102 giocatori del PGA Tour hanno guadagnato almeno un milione di dollari e 52 hanno hanno fatto lo stesso sullo European Tour. Questo significa che altrettanti caddie hanno guadagnato almeno 100.000 dollari e alcuni cifre di molto superiori.

Divorzi inaspettati

Ma queste cifre significano anche che i giocatori ora si aspettano di più dai propri caddie. Il 2017 ha segnato la fine di tre celebri e durature collaborazioni tra un giocatore e il suo caddie: Phil Mickelson e Jim “Bones” Mackay si sono separati dopo 25 anni; Rory McIlroy ha licenziato J.P. Fitzgerald, l’unico caddie che avesse mai lavorato per lui da professionista; e Jason Day ha deciso che Colin Swatton, suo mentore e insegnante di lunga data, non sarebbe più stato il suo caddie. «A volte devi prendere decisioni difficili», ha raccontato McIlroy dopo la rottura con Fitzgerald. «Credetemi, non è stata una decisione improvvisa. Ci avevo riflettuto a lungo». Mackay crede che per avere una collaborazione duratura con un giocatore di alto livello, un caddie debba mantenere un certo distacco. «C’erano volte in cui ritenevo di dover dare a Phil un po’ di spazio», spiega Mackay. «Era sempre disponibile a offrirmi un posto sul suo aereo, ed ero tentato; ma ogni tanto declinavo».

Arrivano gli agenti

Il denaro ha introdotto un nuovo fattore nel rapporto tra giocatore e caddie: gli agenti. In passato queste collaborazioni nascevano quasi sempre nei parcheggi. I caddie sapevano sempre quando un giocatore era alla ricerca di un nuovo assistente e lo avvicinavano mentre scendeva dalla sua auto, il martedì. È così che Tom Watson e Bruce Edwards hanno cominciato a St. Louis nel 1973. Oxman, grande amico di Edwards, gli indicò Watson nel parcheggio suggerendogli: «Non ha un caddie. Vai a chiedere a lui». Edwards lo fece, offrendosi di lavorare per Watson per un anno. «Proviamo per una settimana», gli rispose Watson. Hanno continuato a provare per quasi trent’anni. Ora invece è l’agente a contattare il caddie per lavorare con il giocatore. «È più come essere esaminati da una commissione piuttosto che avere a che fare con il solo giocatore», spiega Mike “Fluff” Cowan, che ha collaborato con tre giocatori per gran parte della sua carriera: Peter Jacobsen per 18 anni, Tiger Woods per 3 e Jim Furyk per 19. Quando quest’anno Cowan ha lavorato con K.J. Choi per alcune settimane mentre Furyk non giocava ed è stato l’agente di Choi a contattarlo. «A volte», racconta Cowan, «hai a che fare con l’agente, l’istruttore, lo psicologo. Ti sembra di essere in corsa per una carica».

Le competenze necessarie oggi

Dopo la laurea in Giurisprudenza, Oxman ha fondato “The Campaign Group”, un’agenzia che offre servizi di comunicazione e pubblicità ai candidati democratici USA, ma ha continuato a fare il caddie. Dopo la morte di Edwards per SLA nel 2004, Oxman è stato il caddie di Watson ogni volta che il suo lavoro lo ha permesso. «Da quando sono tornato, fare il caddie è completamente diverso», racconta Oxman. «È diventata una vera professione. Molte delle vecchie storie che raccontano di caddie che sparivano da una settimana all’altra o, addirittura, non si ripresentavano da un giorno all’altro sono vere. Ora, invece, è un lavoro a tutti gli effetti, uno che non vuoi perdere se hai un buon giocatore. Appena ho ricominciato, ho capito che avrei dovuto rimettermi in forma. E velocemente. Ho perso 13 chili. Poi, oggi bisogna anche saper usare la tecnologia: sfruttare i dati di ShotLink, saper usare correttamente un range finder. Non ci sono più scuse per una distanza o un colpo calcolati male». Con una carriera di successo in politica, Oxman non ha mai paura di dire a Watson quello che pensa. «Quattro anni fa a Newport Beach, Watson era meno sette in un par 71 alla buca 16», racconta. «Non aveva mai fatto un punteggio pari alla sua età. Su nessun campo. E per lui era importante. Mentre ci dirigevamo al tee della 17, mi esce con un: “Ehi, se faccio due par finisco in 64”. Allora aveva 65 anni. Gli ho risposto: “Tom, qui è come il baseball: non si parla mai di una vittoria schiacciante prima che sia finita. Vai a sederti su quella panchina mentre aspettiamo e non dire una sola altra parola”. È andato a sedersi da solo e non ha detto più niente finché non ha finito: ha fatto par e birdie, per un punteggio di 63».

La battaglia degli shorts

Anche se i caddie hanno fatto molta strada dai giorni del temporale di Bay Hill o del recinto di Memphis, ci sono ancora cose per cui devono combattere. «Figuriamoci, qualcuno è quasi dovuto morire prima che ci permettessero di indossare pantaloncini», conferma Hicks. Permettere ai caddie di portare i pantaloni corti alle latidudini più calde o nelle giornate più afose è stato per anni una controversia. Nel 1997 la United States Golf Association li ha ammessi durante gli US Open; è il motivo per cui Hicks indossa pantaloncini durante il suo famoso abbraccio con Stewart a Pinehurst. «Non vorrei mai portarmi dietro quelle sacche in una giornata calda indossando pantaloni lunghi», ammise al tempo David Fay, allora direttore esecutivo della USGA. «La gran parte di noi quando le temperature sono alte indossa pantaloncini per giocare. Perché non dovrebbe essere permesso anche ai caddie?». Ma il Tour non era d’accordo. Poi, a luglio del 1999, con i 34 gradi di Chicago e con una temperatura percepita di quasi 38, Garland Dempsey, il caddie di John Maginnes, ha perso i sensi alla buca 15 del Cog Hill Golf & Country Club durante il terzo giro del Western Open. Stava avendo un infarto e il suo cuore si è fermato sul fairway prima che venisse rianimato appena in tempo perché lo portassero in ospedale e gli salvassero la vita. Due settimane dopo il Tour ha deciso di permettere ai caddie di indossare pantaloncini.

Sono le nuove star

Negli ultimi anni i caddie sono diventati delle celebrità grazie ai microfoni parabolici che captano le loro conversazioni con i giocatori. Quando la scorsa primavera Mackay e Mickelson hanno messo fine alla loro collaborazione, a Mackay è stato subito offerto un lavoro con Golf Channel. Tutti gli appassionati che seguono il golf conoscono “Bones” (il soprannome che Fred Couples gli ha dato anni fa) almeno quanto conoscono i giocatori più bravi. «Non me lo aspettavo», ammette Mackay parlando dell’opportunità di lavorare in televisione. «Ho ricevuto subito alcune richieste da altri giocatori, ma poi c’è stata l’offerta di Golf Channel e mi son detto: “Perché no?”». Pertanto, ora si guadagna da vivere camminando ancora sui campi da golf, ma si porta dietro un microfono invece di una sacca da 18 chili. E non deve più preoccuparsi dell’accesso alla club house.

Ricordi e aneddoti

Torniamo all’inizio. Temporali a parte, Christensen ha smesso di fare il caddie dopo cinque anni, quattro in più di quanto aveva programmato. Nel 2011 Streelman si era qualificato per tutti e quattro i Major e Christensen non voleva perdere questa esperienza. Nel 2012 Streelman gli ha chiesto di rimanere un altro anno, perché pensava di avere una possibilità di qualificarsi per la Ryder Cup. Quando fu evidente che non sarebbe andata così, Christensen disse a Streelman che credeva fosse tempo per lui di tornare a casa nel Minnesota. Ora lavora nel Compartimento Business Development della Medtronic, un colosso mondiale specializzato in dispositivi e dispositivi biomedici. Lo ha sostituito Frank Williams, anche lui caddie da molto tempo. «A volte quell’ambiente mi manca ancora», ammette Christensen. «Ricordo il primo torneo di Kevin nel 2008 alle Hawaii. Lì le spese erano molto elevate e per risparmiare dividevo la stanza con Kevin e sua moglie Courtney. Due letti da una piazza e mezza. Quando Kevin si è qualificato quella settimana era come se avessimo vinto, perché significava che entrambi avevamo guadagnato qualcosa. Dopo sedici milioni di dollari vinti in premi da Streelman, dubito che Frank abbia mai dovuto dividere una stanza con Kevin, Courtney e i bambini». E ovunque abbia dormito, non era certamente neppure il bagno di una stazione di servizio.

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