ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

La tenacia di un uomo solo, Sylvain Cote, ha restituito all’isola il suo unico campo che, dopo il sisma, aveva ospitato per tre anni 55mila sfollati. E ha ridato il lavoro a chi l’aveva perso.

di Adam Schupak
foto di Dominick Furore

Sylvain Cote si trovava nella zona surgelati del suo negozio quando il terreno tremò. Forte. Poi ancora più forte.

In passato aveva già sperimentato scosse; ma errano minori, meno intense. Niente, al confronto.

Quando vide gli edifici oscillare, capì subito che sarebbe stato un terremoto tremendo.

Riparatosi accanto a una colonna sotto una lastra di metallo vicino alla zona carne, ha aspettato. «I 45 secondi più lunghi della mia vita», confesserà.

Il 12 gennaio 2010, appena prima delle 17.00 (ore locali), un terremoto di magnitudo 7 nella scala Richter ha devastato Haiti, causando oltre 220mila morti e un numero anche maggiore di feriti.

L’epicentro è stato a circa una ventina di chilometri a sud da Port-au-Prince, la capitale, non lontano da dove abitava Cote.

Cote si è fatto strada tra i detriti ed è uscito dal negozio in una nuvola di fumo causata dai crolli.

Ci ha messo circa quattro ore di macchina per fare la decina di chilometri che lo separavano da casa. Che, per fortuna, ha trovato ancora in piedi, con sua moglie e la figlioletta di tre anni illese.

Ma pochi sono stati così fortunati. Circa un milione di persone si sono ritrovate senza un tetto, aggravando le sofferenze di un Paese che era già tra i più poveri del mondo.

È stato il peggior terremoto degli ultimi duecento anni in quell’area.

Spinti dalla paura di altri crolli, molti haitiani hanno cercato scampo sui fairway del Golf e Tennis Club Petion-Ville, situato in una zona commerciale in collina.

Nel giro di pochi giorni, oltre 55mila sfollati hanno occupato il campo, di cui Cote era socio, trasformandolo in una delle più grandi tendopoli dell’isola.

I sopravvissuti s’ingegnarono utilizzando qualsiasi cosa (lenzuola, teloni, piastrelle, compensato, lamiere), per costruirsi un rifugio di fortuna, per mettersi, poi, in fila, per comprare, al corrispettivo locale di una cinquantina di centesimi, un secchio d’acqua potabile.

Cote era arrivato ad Haiti nel 1998 per un progetto personale che avrebbe dovuto essere di breve durata.

Invece il lavoro lo occupò a lungo e iniziò subito a giocare e far da caddie al Petion-Ville, un 9 buche che, fondato nel 1934, è il secondo campo più antico dei Caraibi.

È l’unico campo da golf esistente ad Haiti.

I trecento soci si resero conto che ospitare tutti sarebbe stato impossibile, per non dire inumano.

«Non ho mai visto così tanta disperazione», ricorda Cote. L’intera struttura è servita per le esigenze primarie.

La piscina è stata svuotata e gli otto campi da tennis sono diventati un deposito per cibo, acqua e medicine.

Sean Penn (il famoso attore) tramite la sua associazione no profit ha provato a portare un po’ di ordine.

Il suo ufficio era vicino al green della 9, non lontano dalla farmacia. I servizi religiosi erano nella zona della buca 4, in una tenda blu e bianca.

Una scuola elementare fu costruita sul fairway della 5 e nel fairway di fianco una banca, un barbiere, un’estetista e un piccolo ospedale.

La normale attività del golf ricomincerà solo nel 2013.

Con il supporto dell’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione e delle Autorità haitiane, sono stati dati alle persone rifugiate nel campo un tetto sotto cui vivere e 500 dollari di stipendio.

Per trasferire tutti e smantellare l’improvvisato villaggio sono stati necessari 18 mesi.

Al termine dei quali il campo era così compromesso che il Consiglio direttivo del Circolo, spaventato dai costi, decise di non ricostruirlo.

È a questo punto che Cote si offrì di sobbarcarsi le spese e chiese al board del Club il permesso di intervenire.

«Fa’ quel che ti pare», gli risposero, «ma non contare sul nostro aiuto».

Cote non si è perso d’animo e, pur di non veder morire l’unico golf di Haiti, ha riunito un piccolo gruppo di caddie e lavoratori per ricostruire il campo con le loro mani.

La riqualificazione è iniziata bruciando la spazzatura e smaltendo montagne di metallo e di gomma.

Quando gli altri lavoratori lo videro prendere una pala per riempire una carriola, capirono subito quanto facesse sul serio.

Tutti i sabati per più di tre anni Cote arrivava al golf alle 8 e assegnava i compiti.

Nei giorni feriali, invece, poiché Cote era occupato in negozio, era il caddiemaster storico a supervisionare i lavori, seguendo le sue istruzioni.

«Era il nostro progetto», spiega Cote. «I ragazzi facevano il lavoro sporco. Io li guidavo e basta».

Iniziarono con la buca 9, in piano, la più vicina alla club house. Il fairway era ricoperto da sessanta centimetri di ghiaia, perché era stato adibito a parcheggio.

Usarono un escavatore, unico macchinario a loro disposizione, per rimuovere rocce e tubature dell’acqua, così come le lastre di cemento che erano state posate.

Solo per questa buca è servito un anno di lavoro.

Invece di rifare il campo secondo il lay-out originario, Cote lo ha ricostruito secondo la sua immaginazione e le sue possibilità.

Avendo perso alcune parti di percorso, ha creato un green doppio. Un altro green è stato seminato con erba da pascolo. In alternativa, è stata trapiantata erba del posto.

Inoltre sono stati aggiunti quattro nuovi tee, un muro alla 9 e un bunker davanti al green dell’ultima buca.

Il par è 64. Il miglior giro di Cote, ora cinquatenne, è stato un 66.

Non c’è mai stata una tabella di marcia per il completamento dei lavori, ma solo la speranza di avere tanti giorni soleggiati.

Durante i tre anni di ricostruzione, Cote motivava i ragazzi promettendo uno stipendio fisso e il possibile ritorno al loro lavoro di prima.

Ha investito 30.000 dollari suoi e altri 10.000 li ha raccolti da sostenitori vari.

Alla fine di tutto, confesserà Cote, non si è trattato solo di un lavoro di ricostruzione di un campo, ma di una sorta di esperimento sociale che ha visto un gruppo di persone coinvolte nel raggiungimento di un obiettivo comune.

«Il progetto», ammette ora, «mi faceva andare avanti, dandomi una ragione per rimanere ad Haiti».

Il Club ha riaperto a Marzo 2016 e per Cote è tornato a essere il fulcro della sua vita sociale: oltre a giocarci una cinquantina di volte all’anno, egli passa molto tempo in piscina e in biblioteca.

Dopo la Louisiana che ha coinvolto tutti i lavoratori, organizzata per festeggiare il giorno di riapertura, durante il barbecue un socio del club gli si avvicinò e gli sussurrò:

«Non avrei mai pensato che ce l’avresti fatta». Cote sorrise.

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