ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

«Francesco, ma cosa hai mangiato ieri sera?».

Così, cari amici de Il Mondo del Golf Today, mi ha accolto Tiger Woods sul green dell’ultima buca del Quicken Loans che avevo appena vinto con un giro finale in 62.

Tiger, scherzando, mi chiedeva il segreto di quella fantastica giornata. Lui, che di giornate così ne ha vissute un’infinità.

E, a dir la verità, in quello stretch dalla 10 alla 14, quando ho infilato un eagle e quattro birdie consecutivi chiudendo virtualmente la partita, penso anch’io di aver giocato il miglior golf della mia vita.

Poi, prima di consegnarmi il trofeo della mia prima vittoria americana, Tiger è tornato ai giorni della Ryder Cup 2010, in Galles, quando il pubblico cantava “Two Molinari’s, there are just two Molinari’s”, inneggiando a Edoardo e a me.

E il bello è che si è messo lui a canticchiare quel motivetto.

Beh, non me l’aspettavo ed è stato davvero divertente. Oltre al fatto che ricevere proprio dalle sue mani il Trofeo della mia prima vittoria sul PGA Tour ha avuto un significato speciale.

Anche perché in gara c’era anche lui e ha giocato molto bene, rimontando fino all’ultimo. E infatti mi è sembrato particolarmente soddisfatto del gioco espresso.

Dopo tutte le cerimonie e le interviste, quando ho riacceso il telefono e mentre mi avviavo all’aeroporto per tornare a Londra col volo della notte, ho naturalmente trovato un mare di messaggi.

Tutti mi hanno fatto piacere: amici, tifosi, ex calciatori, caddie. Ma certo che ricevere i complimenti da colleghi di talento come Bubba Watson, Justin Rose, Luke Donald è stata una soddisfazione particolare.

Gioco in America da quattro anni, inseguivo questo successo.

So bene ormai che lì tutti giocano col coltello fra i denti e mi aspettavo una giornata conclusiva difficile: c’è sempre qualcuno che salta fuori con un risultato straordinario.

Ma stavolta il 62 l’ho fatto io e, da quell’eagle alla 10 in poi, probabilmente li ho scoraggiati tutti.

È quasi inutile dire che, da Wentworth in poi, è stato un mese semplicemente fantastico.

Magari vi ricorderete che, proprio nel numero scorso, mentre mi accingevo a giocare il BMW PGA Championship, avevo scritto che per la mia stagione avevo bisogno di un colpo d’acceleratore.

Ecco, credo proprio di averci dato dentro, con due vittorie e un secondo posto che hanno sistemato tutte le mie classifiche.

E, se devo essere onesto, sono andato anche oltre le mie stesse più rosee previsioni.

Tutto quello che non ho raccolto nella prima parte della stagione, l’ho conseguito in queste settimane. E non butto via nemmeno il 25esimo posto all’US Open su quel campo terribile che ha fatto strage di campioni.

Nella mia carriera è la prima volta che vinco più di una gara in stagione (e un’altra l’ho sfiorata…) e molti mi chiedono quando io abbia avvertito che stavo facendo un salto di qualità. Francamente, è difficile dirlo.

A inizio anno vedevo che non riuscivo a raccogliere quanto avrei dovuto, ma esclusivamente per demeriti miei.

Questo mi ha spinto a lavorare ancora di più. Il cambio di putter e il lavoro con Phil Kenyon, col senno di poi, hanno dato i loro frutti. Poi, ovviamente, se vedi che cominci a imbucare prendi fiducia e le cose vanno sempre meglio, come è successo in quella famosa “striscia” fra la 10 e la 14 al Quicken Loans.

Ma con questo non intendo rinnegare né buttare a mare il lavoro svolto negli anni precedenti con Dave Stockton. Tutto mi ha aiutato a crescere; è stato un processo lungo e ognuno ha contribuito.

Certo, adesso avverto al momento del putt la stessa fiducia che ho sempre avuto nei miei colpi lunghi. E questo è importantissimo.

So che il mio coach di sempre, Denis Pugh, ospite in studio di Sky UK durante la diretta dall’America, ha ricordato i meriti del mio team tecnico, aggiungendo: «Ma il vero capo è Valentina», cioè mia moglie.

Ha ragione. Se non ci fosse lei non riuscirei a fare queste cose. Anche perché manda avanti la famiglia per buona parte dell’anno, mentre io sono in giro. Mi appoggio a lei, anche se non ha competenze golfistiche particolari (pure Denis si confronta sempre con lei).

La sua intelligenza, la capacità di comprendere problemi e situazioni sono fondamentali per la mia serenità.

Molto si è parlato della mia scelta di non giocare a Parigi. Se volete sapere se mi sono consultato con Thomas Bjorn, capitano di Ryder Cup, vi assicuro che non ci siamo sentiti.

Lui ha avuto qualche telefonata col mio manager, Gorka Guillen. Noi, personalmente, ci eravamo sentiti a inizio stagione. Mi aveva assicurato che ci avrebbe tenuto ad avermi in squadra e, quanto alle scelte di calendario, aveva aggiunto: «Sei adulto e vaccinato. Fa’ le tue scelte. Mi fido di te».

Vincendo a Washington credo proprio di aver ripagato la sua fiducia. Se avessi fatto un risultato migliore all’Us Open, sistemando così la classifica FedEx, probabilmente avrei giocato l’Open di Francia.

Comunque, dopo la vittoria di Wentworth, lo step successivo per me era vincere in America. Ci sono riuscito.

Adesso ci sono altri due Major e di certo a Carnoustie, specie col vento (se non sarà troppo forte), potrei trovarmi bene, visto che premia la precisione.

Poi, dopo il WGC Bridgestone Invitational, ci sarà il PGA Championship a Bellerive, St Louis. È un tipico campo da Tour americano, con alberi, acqua, green veloci. Insomma, non c’è tregua.

Ma adesso mi godo i festeggiamenti della mia famiglia e anche del club londinese dove mi alleno, The Winsley, dove ormai sono uno di casa.

Al resto ci penseremo.

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