ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

La prima volta che ho preso un bastone in mano, era di legno e serviva per lanciare il più lontano possibile, così almeno ingenuamente credevo, una pallina dura, ma dalle forme regolari. Avevo più o meno cinque anni. All’epoca i bambini erano tollerati ma non amati all’Acquasanta, il circolo di Golf di cui erano soci i miei genitori.

Venivamo piazzati il fine settimana nella “casina” e in un angolo assolato del ristorante per le nostre colazioni. Non potevamo frequentare la club house, eravamo accettati negli spogliatoi, ma in campo pratica avevamo uno spazio tutto nostro.

C’era Pietro Manca a farci lezione, e con lui Mario Peri, Mario Sardella. Girava anche Cesidio Croce, ma le lezioni collettive non erano cosa per lui.

Spesso alla domenica c’era la garetta. Tre buche per i più piccoli e addirittura sette per i grandi. Si tagliava, come poi imparammo a fare da grandi, il par cinque della sette e la tosta handicap uno della otto. C’erano le premiazioni, le prime delusioni, le vittorie. Le coppe d’argento. Di cui sono ancora piene le nostre case: all’epoca erano belle grosse. E poi i cosiddetti brevetti, con i quali la federazione regalava ai più bravi (ma chi non lo era?) le palline, e le gare nazionali: ai “Pulcini” che si tennero alla Pinetina arrivai al nono posto in Italia. C’era la signora Manca, che gestiva il pro shop, e dal quale si ricevevano in premio le palline da scartare una per una. Altro che Balata. I bastoni per i ragazzini erano quelli dei grandi, ma con lo shaft segato. Il guanto alla nostra età non si usava. E il caddie per antonomasia, Er Boia, ci aveva insegnato a creare con il bastone la zolletta sostitutiva del tee sul battitore. Nulla di romantico, era solo uno sport che all’epoca nessuno giocava.

Poi arriva l’adolescenza, il motorino, le prime ragazzine, il calcio, il tennis e, soprattutto, quell’idea così elitaria del golf, che ti sembra di essere un marziano. E si molla tutto.

Quando ho ripreso mi era restato l’handicap a una cifra, ma un modo completamente diverso per calcolarlo. All’epoca nostra si scendeva di un punto ogni punto sotto al par. E soprattutto non ci si alzava mai. Era l’epoca dei punti, non delle virgole. I bastoni non erano più di legno. I ferri a lama erano stati uccisi. C’erano i Mizuno, le palle morbide. Si sono inventati il rescue. Insomma, giocare con un put Acushnet era ridicolo come usare un drive di legno. Il nostro mito era Nicklaus, quello che c’è stato di mezzo non lo conosco, quello con cui ho ripreso si chiamava Tiger. All’Acquasanta i bambini vanno al bar e i divieti si sono concentrati sui cellulari. I camerieri sono più o meno gli stessi. E a parte Pietro Manca, anche i maestri, lunga vita a loro, sono ancora là. La sauna, quella pagata, si dice, da Monsignor Marcinkus, è tale e quale a quella degli anni Ottanta.

Lo swing è cambiato. Più piatto, più solido. Quando ti vedono praticare ti considerano come noi consideravamo Ben Hogan. Quello che resta di questo favoloso sport è la testa. Puoi avere il movimento più bello del mondo, ma se non hai la testa non riuscirai mai a giocare bene. A qualsiasi livello: dal più basso al campione. In fondo è il bello del golf. Manca diceva sempre scherzando in modo british “gira la cula”; ma su una cosa era intransigente, quando ci vedeva perdere la pazienza: “Se t’arrabbi, lascia perdere: è meglio”.

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