Ma la chioma degli alberi

non è fatta al 90% di aria? La questione è annosa e anche controversa: calcoli diversi abbassano quella percentuale all’80. Ma la statistica personale di un qualsiasi Carrellante racconta un’altra storia: costatando come quasi non ci sia verso di attraversare quelle fronde senza che la traiettoria ne risenta, la convinzione diffusa rovescia l’assunto di partenza. Cioè gli alberi sono fatti al 90% di… alberi, visto che sì e no una volta su dieci si riesce a teleguidare senza danni la pallina attraverso l’intrico di rami, rametti e foglie.

 

Qualcosa del genere deve

aver pensato anche Francesco Molinari, sulla 15esima buca dell’ultimo giro del Masters, dove ha visto definitivamente sfumare la vittoria per un rametto assassino che ha spedito la palla in acqua. Ora, se è vero che tra il golf di Molinari e quello dei Carrellanti i punti di contatto sono pochissimi, ammesso che esistano (come a dire: non facciamo paragoni blasfemi), è vero anche che un albero è un albero per tutti. E come il defunto ex-presidente USA Eisenhower avrebbe voluto far segare l’albero che gli sbarrava puntualmente la strada verso il fairway della 17 di Augusta (abbattimento mai concesso ma provocato nel 2014 da una tempesta), così la tentazione di molti Carrellanti sarebbe di organizzare notturne incursioni sui vari campi. Nella sacca, in quel caso, un solo bastone: la sega. Sono missioni fortunatamente impossibili, è ovvio. Sono solo pensieri che attraversano la mente, non sempre lucida, del Carrellante in difficoltà. Certamente non hanno attraversato la mente del nostro grande Chicco, che, non essendo Carrellante, non si arrampica sugli specchi di alibi improponibili.

 

Già, gli alibi. Sono l’eterna illusione

che tiene in vita quella specie di amore che è il nostro rapporto col golf. Sono il quindicesimo bastone della sacca e probabilmente il più decisivo. Perché un ibrido può sostituire efficacemente un ferro lungo, richiedendo uno swing meno aggressivo; un sand dal bounce giusto può aiutare a non trasformare il bunker in una località di lungodegenza dove trattenersi per tre-quattro colpi; un driver “fittato” sulle caratteristiche personali può correggere sensibilmente la tendenza allo slice o al gancio. Ma nulla aiuta il golfista come l’alibi, il vero bastone vincente. Evocando attenuanti varie (dal vento al clima, dall’altrui gioco lento all’inquietante materializzarsi di un marshall, dalla cattiva digestione alle preoccupazioni lavorative), l’alibi è il ferro, magico più di qualsiasi bacchetta, che tutto trasforma. E soprattutto trasforma alchemicamente uno score disastroso in un giro soddisfacente. Trattasi di score virtuale, ovviamente, ma che, in base a una concatenazione di ipotesi e recriminazioni, riscrive buca per buca il punteggio, costellandolo di par e birdie che sarebbero sicuramente arrivati se… (seguono racconti mirabolanti di sfighe assortite). Quindi, tutto sarebbe andato per il meglio se non… eccetera eccetera.

 

Prende corpo così una sorta di “Second Life”,

una vita golfistica parallela in base alla quale non c’è Carrellante che non abbia un handicap virtuale molto migliore di quello reale, che risulta frenato da tutta una serie di eventi di cui sopra, capaci di aggiungere colpi su colpi (e di sottrarre punti su punti Stableford) a ogni round disputato. Naturalmente nella memoria non resta traccia di quei due o tre colpi di fortuna che, mediamente, si verificano: il putt imbucato per caso da distanza siderale, il rattone che approda ugualmente in green anziché spegnersi in bunker o chissà dove, il drive sbagliato che rimbalza sulla stradina dei cart allungandosi a dismisura. Quelli non contano e soprattutto non se ne parla: sono ritenuti doverosi, e trascurabili, riequilibratori della sfiga.

 

In conclusione: a confronto

di quelli come Molinari (che non recriminano mai se colpiscono un albero, anche se ci si giocano un Masters) siamo o non siamo golfisti immaginari? E allora lavoriamo d’immaginazione. In fondo, che male c’è?

Da “Il Mondo del Golf Today” n° 301 – maggio 2019

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