In World Cup, tra sfortuna e ricordi

Nella 24a Coppa del Mondo, dicembre del 1976, Luciano è al Mission Hills Country Club di Palm Spring, in California, con il fiorentino Baldovino Dassù (1952) che debutta in maglia azzurra e vince nello stesso anno il British Masters e l’Italian Open. Avevano vinto in Italia la selezione della FIG (tre competizioni internazionali) per la World Cup; la coppia è di ferro, ma Luciano si fa male alla spalla sinistra con l’ultimo drive in campo pratica la sera prima della competizione. Il dolore è lancinante e finisce in ospedale per farsi controllare. I due si piazzano dignitosamente, lui si consola telefonando in Italia alla moglie Daniela, che aveva sposato in luglio, e godendo dello splendido paesaggio, attorno le rosse colline che furono dei pellirosse, sotto le ville di Frank Sinatra, del presidente Ford e di cento altri personaggi. La notte, in albergo, gli tornano alla mente gli inquieti anni dell’apprendistato. Come quella volta che… sì, quella volta che alla 9 dell’Acquasanta, accorciata a duecento metri, si trovò a far da caddie al grande zio Ugo nel team che comprendeva Mister Seabury, direttore della Panamerican Italia, un noto medico romano e l’attore americano Bruce Cabot. Match play a due, zio Ugo giocava col direttore. Il green era sotto un dislivello invisibile dalla partenza e i caddie si misero fermi sul ciglio in attesa dei primi quattro colpi. «Facciamogli fare una buca in uno per ravvivare la giornata», propose Luciano. Partì il medico che rimase corto, Bruce fece un gancio, il direttore Usa, alto due metri, 130 chili, mise la palla in green senza però poterla vedere. Rivolto verso di lui, Luciano urlò: «Buca in uno, bravo, buca in uno!». Anche zio Ugo fece un bel colpo e andò in bandiera. Luciano stava per correre verso il green per mettere in buca la palla del direttore, quando zio Ugo, ex caddie di acuta esperienza, ordinò: «Fermi! Aspettateci!». Sembrava che l’intrigo stesse per svanire, ma il caddie birichino lanciò il messaggio a un collega che cercava una pallina sul fairway accanto: «Mezzo sacco (500 lire, ndr) se corri a mettere in buca la palla più lontana dalla bandiera!». Il direttore americano, felice, sollevò di peso zio Ugo e lo portò sul green per fargli vedere che la sua palla era finita proprio dentro. Mancia doppia per tutti e champagne in club house.

Un putt “al volo”

Zio Ugo e Alfonso Angelini erano i migliori. Campioni ormai affermati, volarono in America nel 1953 per affrontare il grande tour. Erano i primi astri italiani di un golf da noi poco conosciuto ed elitario, giganti nell’impegno per arrivare. Alfonso aveva il piede sinistro privo di tre dita congelate sul fronte russo. Oggi sarebbero stati degli assi sul Tour europeo. L’anima del golfista può avere delle penombre come quella del caddie? Sì, anche se il golfista indossa una divisa militare, abito che accompagna di solito valori come onore e dignità. Lo dimostrò un colonnello d’aviazione al quale Luciano faceva da caddie. Erano sul green della 15, oggi par 4 hcp 10, dogleg a destra: quattro giocatori. Il primo putt spettava al colonnello, il più lontano dalla buca. Mentre si metteva in posizione, passò sulle teste un quadrimotore Super Costellation della TWA in atterraggio a Ciampino, un aereo allora stupefacente, che il colonnello, competente, cominciò a descrivere attirando l’attenzione di tutti verso l’alto e spingendo lentamente col putter la propria pallina verso la buca. L’inganno fu maldestro perché la pallina andò troppo avanti, lui dovette dare la precedenza ad altri due che da quattro metri fecero entrambi one putt. Luciano lo fissò e lui, furibondo, chiuse la buca con tre putt. Il quarto giocatore imbucò da pochi centimetri. Anche sul green rubare non sempre paga.

Ricordi di generosità discreta

All’Acquasanta giocavano fior di prelati come monsignor O’Flaherty, che nella Roma degli anni dell’occupazione nazista salvò molti ebrei, la cui storia fu interpretata nel 1983 da Gregory Peck nella miniserie televisiva “Scarlatto e nero”. Suo nemico giurato era stato il comandante Kappler che aveva cercato inutilmente di prenderlo in flagrante. Possente e buon giocatore, hcp 5, impugnava con un grip impossibile, girava solo ma sempre col caddie. Teneva i palmi delle mani verso l’alto eppure la prendeva forte e bene e con un ferro 7, anche a cinquanta metri dal green, sapeva come ottenere un ottimo backspin. Un giorno, alla fine delle quotidiane 9 buche, notò che il ragazzo che lo serviva aveva le scarpe sfasciate come quelle dei monelli di Charlie Chaplin. Alla fine del giro, con il compenso gli diede i soldi per un paio di scarpe nuove. Erano anni difficili. Qualche tempo più avanti gli fu assegnato un caddie che aveva le stesse scarpe disastrate del precedente e anche a lui fornì il denaro per comprarne di nuove, ma aggiunse: «Figliolo, queste scarpe le ho già viste: non passatevele uno con l’altro..». Lo videro sorridere mentre andava verso gli spogliatoi.

Continua…

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