Ma c’è davvero “un grande prato verde dove nascono speranze”? Canticchiavo meccanicamente la canzone di Gianni Morandi quando ho preso a ragionare su quelle parole che avevano accompagnato gli ormai sbiaditi anni della mia adolescenza.
“Un grande prato verde…”: beh, quello c’è. Capiterà anche a voi, come a me, ogni volta che ci si affaccia sul tee della 1 di qualsiasi campo nel mondo di chiedervi come si faccia a non giocare a golf. Perché se va male e il campo non è proprio dei migliori, ci si ritrova comunque in un bel posto dove, appunto, un grande prato verde aspetta le nostre traiettorie. Se, invece, va bene (ed è molto frequente), ci si ritrova in un posto fantastico, che ruba lo sguardo e arriva persino – non sempre, però – a farci disinteressare del destino della pallina che, lei, non è così disponibile ad atterrare proprio nel mezzo di quel grande prato verde e spesso, dispettosa come molte donne, se ne va altrove per fatti suoi. E preferisce, la piccola infame, tuffarsi nell’acqua o ripararsi all’ombra degli alberi anziché depositarsi docile al centro della pista.
“…dove nascono speranze”: eh sì, quante speranze nascono quando si comincia un giro di 18 buche (ma anche di 9, volendo). Speranze basate su strategie inconfutabili: qui gioco per il bogey e non rischio niente; lì attacco perché il par 4 è corto e posso tentare il birdie, poi male che va mi accontento del par. Fino alla 6 mi tengo cauto perché c’è una specie di Amen Corner che merita rispetto, ma con 4 bogey sto a posto; poi scateno l’attacco e non ce n’è più per nessuno. Una, magari piccola, serie di par e il gioco è fatto: non vedo come possa io non chiudere il conto sotto handicap. Tutto ragionevole, tutto regolare, tutto previsto: salvo doppi o tripli bogey che nessuno, quando “pre-gioca” nella mente il round che l’aspetta, mette mai nel conto. E perché mai dovrei fare un 7 (o, Dio scampi, 8) su un par 5? Non esiste. Salvo poi…+
“…che si chiamano ragazzi”: eccoli lì, infatti, ci sono anche loro: parlo di quei fantastici ragazzi che hanno avuto, loro, la fortuna di impugnare un ferro 7 insieme al biberon e adesso, incautamente assortiti a qualcuno di noi pantere grigie, esibiscono naturalezza e flessuosità nello swing a noi ignote e vietate dalla sabbia che il tempo deposita fra articolazioni, giunture, spazi intervertebrali. Eccoli gli splendidi ragazzi che ci danno 60/70 metri sul drive, che tirano al green un ferro di secondo nei par 5, che quando il fairway gira attorno a un lago, puntano a tagliare sull’acqua… e tagliano, oh se tagliano! Noi ci complimentiamo, da perfetti ipocriti; in realtà, vorremmo strozzarli con le nostre mani perché a loro è concesso, con naturalezza, tutto ciò che a noi è vietato, persino con fatica.
“Questo è il grande prato dell’amore…”: e no, caro Gianni (nel senso di Morandi), qui proprio non ci siamo più. Già quelle speranze che nascono sul prato e si chiamano ragazzi ci hanno fatto girare non poco i cabbasisi, come appena ricordato (con annesso impulso strangolatorio). Adesso, se devo pensare di definire un campo da golf come “il grande prato dell’amore”, comincio davvero a incontrare qualche difficoltà. Perché, se devo dire la verità, non vedo molto amore tra una buca e l’altra. C’è chi impreca a sé, al mondo, al destino; chi lancia bastoni per la frustrazione dell’ennesima flappa. (Confesso, padre, di aver molto peccato anch’io in sacramentazioni e lanci impropri: “Quante volte, figliolo?”.“Lasciamo stare, padre. Concordiamo un abbondante forfait di Pater Noster e aggiustiamoci così, ché facciamo prima”…).
Insomma, quella canzone non è la nostra canzone. Di noi ex giovani, quantomeno. Sul grande prato verde, sia nella canzone che nella realtà golfistica, le speranze che nascono si chiamano ragazzi. E a noi che resta? Resta, forse di chiedere aiuto alla grande Mina, che ragazza purtroppo non è più, e con lei intonare il celebre “L’importante è finire”. Dopo, una buona birra ci consolerà. Ma non è detto.