ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Essere il n.1 del mondo impone degli obblighi e aggiunge pressione alla già grande pressione che ogni torneo di golf induce in ogni giocatore. Dalla brusca interruzione dell’èra-Tiger nessuno aveva retto quel carico a lungo: né Luke Donald, né Lee Westwood, né Martin Kaymer. Poi, nel 2014, si è aperta la fase-McIlroy e la musica è cambiata. Rory, finora, sembra l’unico in grado di sostenere quel ruolo con autorevolezza analoga alla Tigre, come va dimostrando nei Majors e negli appuntamenti più significativi. Il WGC Cadillac Championship di San Francisco ne è la dimostrazione: Rory non ha sfoggiato il suo miglior gioco ma ha chiuso con 7 vittorie su 7, non distraendosi nemmeno nel girone iniziale, quando una eventuale sconfitta avrebbe potuto essere indolore, grazie alla nuova formula che ha tenuto in gara i 64 giocatori per i primi tre giorni, evitando di mandarne a casa subito la metà come accadeva prima.

Non il miglior Rory, dunque, ma un Rory spietato che, interpretando al meglio lo spirito del match play ha sfoderato i colpi giusti nei momenti decisivi. E’ successo nel quarto di finale chiuso solo alla 22esima buca con Paul Casey (“graziato” purtroppo da Francesco Molinari nel girone) ed è successo ancora nella semifinale con Furyk che, per i valori in campo, è stata la vera finale anticipata. In svantaggio di una buca sul tee della 17 contro l’inossidabile Jim, McIlroy ha pareggiato i conti con un birdie poi li ha chiusi con l’eagle alla 18, imbucando il putt da 14 metri. Nella finale con Woodland non ha avuto bisogno di spremersi troppo: i suoi errori dal tee erano compensati da analoga (e più grave) “erraticità” dell’avversario che ha sprecato anche l’unica opportunità di rimettere tutto in discussione quando ha mancato da due metri un putt sulla 13 che l’avrebbe riportato solo 1 down. Il 4 e 2 finale, senza apparente sforzo, dice praticamente tutto.

Rory è il re indiscusso del momento e, all’orizzonte, vede solo profilarsi, per ora, la minaccia di Jordan Spieth, che a San Francisco è uscito subito di scena, nonostante un po’ di miracoli assortiti sul green.

Per Francesco Molinari, diciamo la verità, una grossa occasione perduta. Aveva sfruttato al meglio il momento-no di Adam Scott battendolo tranquillamente nel primo match. Dopo aver ceduto a Chris Kirk nel secondo, aveva in mano il suo destino con un Paul Casey inizialmente falloso: 4 up dopo 8 buche, ancora 2 up sul tee della 15, ha infilato un tris di bogey, insoliti per un regolarista come lui, che gli hanno tagliato le gambe e sbarrato la strada. Sarebbe stata la volta buona per fare un bel balzo in avanti nelle classifiche mondiali ed europee: invece i 63.500 dollari del 34esimo posto ex aequo lo lasciano 70esimo del World Ranking.

Adesso si passa al The Players, il “quinto Major” che rivedrà al via tutti i migliori, compreso il Tiger appena tornato single dopo l’annunciato “sfidanzamento” con Lindsay Vonn. Tutti contro tutti, ma soprattutto tutti contro il campo, il tremendo TPC di Sawgrass, firmato dal genio diabolico di Pete Dye. Per intenderci sulla filosofia di progettazione di Dye è illuminante la sua frase riportata in una targa davanti alla Club House di French Lick (Indiana), città natale, fra l’altro, di Larry Bird, asso dei Boston Celtics: “Il golfista appassionato giocherebbe anche sull’Everest se qualcuno ci piazzasse in cima una bandiera… il golf non è un gioco “fair” e quindi perché costruire un campo fair ?” .

Ecco, questa è l’idea di Pete Dye e questo troveranno Rory, Jordan, Tiger & co. a Sawgrass. Benvenuti in Paradiso. O, se preferite, all’Inferno.

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