ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Per rispondere, cinque grandi campioni rileggono la carriera di Tiger Woods attraverso la loro esperienza. E spiegano il passaggio da “bravo” a “mito del golf”

di Jaime Diaz

Più di ogni altro giocatore della storia, Tiger Woods all’apice della sua carriera rifiutava l’idea che non si può vincere sempre. L’immagine di quel giocatore completo e straordinario che ha dominato la scena nella prima decade del 2000 rimane indelebile e ancora oggi è un riferimento per ogni settore del gioco, soprattutto in quelli che sono gli elementi costitutivi della grandezza di un campione.

Tiger Woods è uno degli ultimi rimasti della grande famiglia dei giocatori che fanno del gioco corto il loro punto di forza. Così, dopo il suo sorprendente ritorno, libero da ogni problema alla schiena – sia all’Hero World Challenge, sia, poi, al Farmer Insurance Open – abbiamo fatto due chiacchiere con cinque tra i più grandi della storia: Jack Nicklaus, Gary Player, Lee Trevino, Johnny Miller e Nick Faldo. Sono tutti vincitori di Major, per un totale di 41 affermazioni, l’inverso di Tiger (14). Si sono tutti ritirati dai grandi palcoscenici ma fanno ancora parte del mondo del golf. Conoscono tutti molto bene quel campione che è ormai diventato mito e hanno una perfetta conoscenza del gioco di cui una volta erano padroni.

La nostra idea era sfruttare una premessa che si è dimostrata valida fin da quando Woods ha esordito: Tiger sapeva che sarebbe diventato uno dei migliori già da dilettante a metà degli anni Novanta. Migliore è il giocatore, migliore è la differenza che fa.

Per ottenere un’analisi completa e approfondita, abbiamo interpellato ognuno di questi cinque fuoriclasse sul settore del suo gioco più simile a quello di Tiger, perché ognuno di loro possedeva parte delle qualità e dei punti di forza di Woods.

Nicklaus aveva la capacità di tirare i colpi migliori nei momenti importanti, Player l’incredibile autostima, Trevino l’ossessione per il gioco, Miller la mentalità vincente che ebbe fin da giovane, Faldo infine, la maniacale attenzione per i Major.

La personalizzazione delle domande, basata sulle specifiche qualità di ognuno dei cinque campioni, ha permesso loro di rispondere attingendo direttamente dalle esperienze vissute sul campo. Solo fuoriclasse come loro avrebbero potuto fornire un contributo di esperienza e intuizione su cosa realmente occorra per raggiungere i massimi livelli nel golf.

Grazie alla loro profonda conoscenza della materia, è possibile farsi un’idea ancor più raffinata delle qualità di Tiger. La grandezza nel golf rimarrà affascinante e insieme misteriosa. La domanda del momento è: Tiger, ormai 42enne, potrà regalarsi ancora un finale di carriera, simile, per intenderci, all’anno 1986 di Nicklaus?

Nick Faldo – L’importanza del primo colpo

Io e Tiger siamo simili quanto a capacità di rimanere tra i primi nell’arco di tutto il torneo. Avevo questa capacità di concentrarmi sul golf. Sentivo gli psicologi che mi dicevano di staccare, ma non ci riuscivo proprio. A volte la mia caddie, Fanny Sunesson, cercava di parlare di altro, ma io la fermavo subito: «No, no, no: continuiamo a parlare di golf». Il tempo di preparazione tra un Major e l’altro è fondamentale ed è in questo che Tiger era fenomenale. Il percorso che ti porta al primo colpo di un Major può durare una-due settimane, o anche mesi, nel caso di Augusta. Perché devi iniziare bene, devi essere pronto il giovedì mattina. Ricordo di aver letto che Arnold Palmer cercava di portare nei primi colpi di un torneo la stessa intensità delle ultime due buche della domenica.

Fu una grande lezione per me. Nei Major mi dicevo: “Anche se è giovedì, ogni colpo è storia, quindi non sprecarne”. Tornando a Tiger, mi ricordo le sue prime 9 del Masters del 1997 quando ne tirò 40 (Faldo, defending champion, era il suo compagno di gioco quell’anno, quando Woods vinse di 12 colpi, nda). Non penso che quello fosse uno di quei momenti in cui si diceva: “Non lo devo fare. Non mi posso presentare a un torneo per poi fare figuracce. Devo trovare un modo per essere pronto”. E credo che lui abbia saputo farlo al meglio. Come avrebbe fatto, altrimenti, dopo aver vinto un torneo, a sparire per tre settimane e ripresentarsi sul tee della 1 di un Major senza sprecare un solo colpo? Pensate a quante volte vi siete chiesti: “Ma come fa a imbucare ogni singolo putt?”

Tiger sapeva di essere diverso, speciale. Senza alcun dubbio tirava la palla in modo diverso da tutti. Nessuno tirava drive, ferri lunghi, approcci e putt come lui. Nessuno era così bravo in tutti i settori del gioco. Ed era consapevole anche di essere il più pronto di tutti al tee shot di giovedì mattina. Così è diventato un modello per tutti. Ho fatto molti birdie sulla prima buca dei mie tanti Open Championship. Ti prepari mentalmente per questo tutta la settimana, lo visualizzi: ti vedi lì sul green e ti immagini di imbucare il putt, ed è fatta. Altri invece si presentano sul tee e non riescono a vedere il fairway.

Cambierei alcune cose della mia carriera. Ho esagerato nella preparazione di alcuni tornei. Sapevo di esagerare, che mi stavo scaricando troppo. Ma mi dicevo di non arrivare a 45 anni senza aver dato tutto. Perchè ho conosciuto molti golfisti che a 40 anni erano pigri. E improvvisamente le occasioni finiscono. Sei un atleta a cui sono date alcune opportunità: quando ti capitano, ti conviene sfruttarle. Una volta che non hai più la testa, non torni più indietro.

Quel giro nel 1996 (in cui recuperò sei colpi di svantaggio da Greg Norman, nda) è stato, mentalmente, uno dei miei migliori giri. Lo swing non era in condizioni perfette e dovevo prepararmi mentalmente a ogni colpo. Pensavo tra me e me: “La magia sta finendo?”. E mi rispondevo: “No! Non sta finendo! Forza, cosa intendi fare? Colpiscila, mettila vicina, e trasferisci questa mentalità nello swing: solo così ce la farai”. Avevo una lista di obiettivi da raggiungere. Non avevo più la fiducia al 100%, o qualunque sia la percentuale, di quando ti senti Superman. Quando tentenni, devi convincerti: “Ne uscirò”. Poi un giorno ti dici tutte quelle cose, ma non riesci più a metterle in pratica. In quel momento ti dirai: “Oh, mamma mia”.

Presentarsi a un Major con l’intenzione di vincerlo e riuscirci ti dà il massimo della soddisfazione. L’ho fatto tre volte sulle mie sei vittorie nei Major (Masters e Open a St. Andrews del 1990 e Open a Murfield nel 1992). Quanto a Tiger, non so se le sue intenzioni fossero chiare prima di tutti e 14 i Major che ha vinto. In quelle occasioni senti l’energia. Ti sembra che tutti siano lì solo per guardare te. Il tuo modo di fare probabilmente dà anche fastidio a molti giocatori, ma tu sei totalmente assorto, concentrato. Tiger amava presentarsi ad un torneo con tutte le luci addosso. Ero strabiliato da come riuscisse a sopportarlo. Ero nel driving range a lavorare per la TV, ad Augusta.

Arrivò lui e se ne avvertiva l’aura. Ogni giocatore, ogni persona si girava per guardarlo. Lui riusciva a trasformare tutto questo in energia. Quando fai tutto nel modo corretto, lì arriva quella sensazione che ce la farai. L’ho avuta una volta: camminavo verso il tee della 1 a St. Andrews nel 1990.

C’era un’asta corta subito dopo lo Swilkan Burn in una giornata molto ventosa. Così David Leadbetter mi avvertì che, per lo spin, già molte palline erano rotolate giù in acqua. Era un colpo da ferro 9, ma, preoccupato, pensai a un 8. Preso dalla paura scelsi alla fine un 7 e tirai un punch. La palla di fermò una trentina di metri dopo la buca, lasciandomi un putt molto complicato. Mi dissi: “Rilassati. Sai benissimo che vincerai questo torneo”. Lo puoi dire oggi, trent’anni dopo, e la gente non ti dà dello sbruffone. Ma per dirti e convincerti di determinate cose non basta pensarle. Le milioni di palline tirate e le migliaia di ore spese in allenamento ti permetteranno di sapere (e poi fare proprio) quello che si deve fare. Ed è fantastico.

Johnny Miller – L’influenza del padre

Quando cominciò ad affermarsi, vidi nel gioco di Tiger molto di me. Non so esattamente come lo facesser lavorare suo padre Earl, ma so che aveva la certezza che suo figlio sarebbe arrivato al top. Diceva: «Questo ragazzo diventerà il più grande di sempre», e probabilmente glielo ha ripetuto milioni di volte. Ha speso molto del suo tempo con Tiger, facendo molte cose che faceva anche mio padre. Tutto è stato centrato attorno al padre, no?

Quello che ho visto in Tiger era il drive, che tirava anche meglio di me. E aveva abilità anche più rare: se doveva imbucare il putt, lo imbucava. Non molte persone sono in grado di farlo. Penso a Casper, Nicklaus e, un po’, anche a Trevino. È molto raro vedere un ragazzo che migliora il putt nei momenti cruciali. Tiger era così. Io ne ero capace nel gioco lungo, ma non riuscivo a completare l’opera sul green.

Sono convinto che Earl avesse la sensazione che si trattasse di un ragazzo speciale e ha creato con lui un rapporto unico. Tiger voleva rendere felice suo padre e realizzare quello che si aspettava da lui. Se non fosse stato per Earl, Tiger sarebbe stato un ragazzo diverso. Ne sono pienamente convinto.

Quando, a cinque anni, mio padre mi iniziò al golf facendomi tirare palle contro un telone nel nostro seminterrato, non potevo tirare la palla troppo alta perchè avrei colpito le travi. Così tiravo tantissimi ferri 5 e 6. Miravo a una linea verde che posizionavo sul telo a circa 5 metri di distanza e sapevo che un ferro perfetto l’avrebbe colpita.

Questo metodo di allenamento mi ha aiutato molto per lavorare sul suono e sul contatto con la pallina. Potevo sentire il colpo, senza alcuna vibrazione. Questa ricerca portava al massimo la mia concentrazione. In quegli anni ero ancora molto piccolo. Pesavo 47 chili. Ero un puttatore fenomenale. Scommetto che a 12 anni ero uno tra i dieci migliori puttatori al mondo.

Una volta feci 16 putt in 18 buche al Lincoln Park di San Francisco: e su green di pessima qualità. Ma amavo tutto del golf. Mio padre mi ha cresciuto come un piccolo pro. Mi ha insegnato come salutare il pubblico, come mettermi il guanto, perfino come strabuzzare gli occhi e come e quando digrignare i denti. Un piccolo Hogan, insomma. Mi ha sempre parlato anche di mentalità.

Aveva segnato su una lavagnetta alcuni esercizi (flessioni, addominali) che riteneva indispensabili perchè ero gracile e dovevo irrobustirmi. Lavorava la notte in modo da dormire mentre ero a scuola. Dopo scuola mi portava al San Francisco Golf Club, dove prendevo lezioni da John Geertsen ed è stato come se il Club mi avesse adottato.

Ci giocavano non più di venti giocatori al giorno, per cui il pomeriggio il campo era vuoto e io potevo provare tutti i colpi che volevo. Potevo tirare anche otto colpi al green,… chiaramente rimettendo a posto la zolla. Quando mi usciva un brutto colpo mio padre non lo prendeva neanche in considerazione. Mi diceva semplicemente: «Ok, tirane un altro». Sempre uno in più, non importa quanti ne avessi tirati. Era sempre: “Ok vediamone un altro”; mai: “Dai, andiamo a casa”.

Era un uomo intelligente e m’insegnava tutto quello che poteva. M’indicava dieci cose nuove da provare, ma otto non erano del tutto corrette. Analizzavamo perchè non avrebbero funzionato e poi ne saltava fuori una utile e magari un’altra indispensabile. Per esempio, quando avevo 10/11 anni iniziò a farmi praticare da mancino. In breve diventai molto bravo, circa 6 di hcp anche da mancino. Ora molti coach sono consapevoli dell’utilità di questo esercizio. Non era noioso, perché era molto creativo.

Quando ero giovane non avevo la minima idea di cosa volesse dire giocare male. Mai giocato male. Mai. Non c’erano bei giri e brutti giri. Solo belli. A 16 anni, ero +2 di handicap sul Lake Course dell’Olimpic Club. Per avere fiducia, penso ti serva un inizio di carriera come il mio. I miei amici s’impegnavano quanto me, ma senza raggiungere gli stessi risultati. Non coinvolgevano loro padre.

Questo coinvolgimento può risultare controproducente se è troppo invadente e negativo. Mio padre, invece, mi spronava sempre: «Stai lavorando alla grande…», «Sei sulla strada giusta…», «Continua a lavorarci…», «Diventerai un campione…», sempre così. Mi chiamava “campione” per rinforzare il mio potenziale. Non era potenziale, perchè già sapevo, a 9 anni, che sarei diventato un campione. Qualcosa dentro di me mi diceva: “Continua a fare quello che stai facendo: come sostiene tuo padre, diventerai un campione”. Questa fiducia da parte del padre è fondamentale per un ragazzino.

Jack Nicklaus – Se vuoi una cosa, fai in modo che accada

Quando dici: “Fa’ in modo che accada”, la cosa fondamentale che io e Tiger avevamo ben chiara, è capire cosa stesse accadendo. Torno indietro ad alcuni miei errori. Penso al 39 nelle ultime nove buche di Cherry Hills, allo US Open del 1960. Oppure a Pebble Beach, nel 1963, quando ero pari a Billy Casper sull’ultima buca, ma ho fatto 3 putt, attaccando troppo il primo e poi sbagliando anche il ritorno.

Con tutto il rispetto per le capacità di Casper, le mie possibilità di batterlo in un play off erano molto più alte della possibilità di imbucare quel primo putt da 7-8 metri con cui avrei evitato lo spareggio. Sempre quell’anno, al Royal Lytham, ho perso l’Open Championship di un colpo finendo con due bogey per mancanza di strategia.

Queste sono lezioni da cui si impara: comprendi come valutare le situazioni, capisci chi sei e cosa puoi fare. E prendi fiducia, dal momento che queste lezioni ti insegnano a scegliere la strategia migliore. Alla fine, diventi “giocatore”. Se dovevo imbucare un putt importante alla 18, la maggior parte delle volte lo imbucavo. Da sotto i due metri era quasi impossibile che lo sbagliassi. Così anche per Tiger. Ricordate Woods alla Presidents Cup 2003, in Sudafrica, al Sudden Death contro Ernie Els? Ricordate, in particolar modo, il secondo putt, quando ormai era buio? Questo intendo quando dico: “Fa’ in modo che accada”.

In quelle situazioni mi mettevo sulla palla e pensavo: “Dovrei… Anzi, ‘Devo’ imbucare questo putt”. Pausa. E poi subito dopo: “Devo farcela”. Questo mi portava a concentrarmi ancora di più e, quindi, a imbucare il putt. Quando questo lavoro di autoconvinzione ti riesce un paio di volte, continui a usarlo finchè funziona. Per me ha funzionato la maggior parte della carriera. Ero sempre molto teso, ma riuscivo a intervenire prima del crollo. Capita di temere di sbagliare: se eliminerete questa mentalità, eliminerete ogni negatività. Non so se sia un cosa innata.

Ho iniziato a vincere intorno ai 10-11anni. Una volta ero alla 6 (par 5) del Lost Tree Golf Club con mia moglie Barbara, che aveva tirato tre legni perfetti per segnare un birdie. Avevo un putt da 8 metri per pareggiare e, ovviamente, lo imbucai. «Me ne lasci vincere una?». mi chiese. Risposi: «Mi dispiace ma non ci riesco.

Vincere è nella mia natura, è ciò che cerco si fare nella vita». Qualunque cosa dovessi fare, l’ho sempre fatta. Certo, sarebbe potuta anche andare in modo diverso. Ma è andata così perché non volevo essere un giocatore qualsiasi. Non volevo perdere. Volevo imparare dagli errori; ma prima volevo capire il motivo per cui li avevo commessi. Penso che per Tiger sia uguale. Mio padre amava praticare ogni sport e io ho preso da lui.

Ho giocato a tennis per tutta la mia vita. Ho giocato a basket in un campionato amatoriale fino a 40 anni. Portavo i bambini agli allenamenti di football e li allenavo anche. Praticare diversi sport ti insegna molto su quello che puoi o non puoi fare. Soprattutto quando si praticano sport di squadra, vedi le forze e le debolezze dei tuoi compagni. Confronti queste cose con te stesso e impari a migliorarti.

Quello che ho imparato dagli sport di squadra mi ha sicuramente aiutato. Tiger, una volta arrivato in testa, aveva la capacità di “seppellire” tutti. Io non ho mai ragionato così, pensavo semplicemente: “Ora che sei in testa, stai attento a non fare stupidaggini che ti facciano perdere la leadership”. Così è andata al Masters del 1965 (vinto di 9 colpi, nda). E lo stesso al PGA nel 1980, nonostante il mio gioco fosse stato pessimo (Nicklaus a Oak Hills ha vinto di 7 colpi, nda). Cerco di contenere le mie emozioni durante il giro.

Da bambino mi entusiasmavo quando facevo qualcosa di buono; così perdevo la concentrazione e per almeno due buche non riuscivo a tornare calmo. Dovevo controllare i miei pensieri per portare a casa qualcosa di buono. Il gioco è imprevedibile e ogni giorno è diverso.

Penso di non aver mai dovuto risolvere lo stesso problema due volte nello stesso giro. Devi sempre cercare di immaginare: “Come fare in modo che accada?”. Io mi fidavo del mio istinto. Mi sono sempre sentito di cambiare il mio swing in qualsiasi momento di un torneo se non avevo sensazioni positive. Mi guardo indietro e vedo molti momenti in cui l’ho fatto. Nessuno sa perché l’ho fatto; l’ho semplicemente fatto, dicendomi: “Devo cambiare qualcosa e devo farlo ora, senza distruggermi per riuscirci”.

Gary Player – Destinato a grandi cose

Tiger Woods, essendosi avvicinato al golf molto presto, ha avuto vantaggi fisici che io non ho mai avuto e che lo hanno messo sulla buona strada per diventare il migliore di sempre. Ma se c’è una cosa su cui probabilmente ce la saremmo giocata o, meglio, dove probabilmente l’avrei battuto, è il drive. Ne ero ossessionato, non ero mai soddisfatto.

La prima cosa che ho notato in Tiger è stata l’immediata capacità di credere nel suo destino. Era trascinato dal fatto che si sentiva “destinato a fare grandi cose”. Capisco quella sensazione. Era vitale per me, e il sapere che altri non la provavano come me mi rendeva ancor più determinato.

Quando avevo 15 anni, per dimostrare a un gruppo di coetanei che ero più bravo, mi sono rotto il collo saltando di testa in quello che pensavo fosse un soffice mucchio di erba e foglie; non era così soffice e ho picchiato sul terreno. Sono rimasto fermo per un anno e, pur avendo cominciato a giocare da poco, ero già ossessionato dal golf.

Durante la convalescenza mi mettevo davanti a uno specchio e mi dicevo: «Sei il miglior golfista del mondo». Era assurdo, ma sentivo che era importante fare così. Più tardi ho imparato leggendo Norman Vincent Peale (psichiatra e pastore metodista americano, autore di un famoso testo sul pensiero positivo). Ha scritto: “Se vuoi qualcosa e lo cerchi, rimarrai colpito da quello che raggiungerai”. I miei genitori, Harry e Muriel, mi hanno sempre incoraggiato. E sono sicuro che questo incoraggiamento sia stato fondamentale per me. È il dono più grande che un bambino possa ricevere.

Anche mio fratello maggiore, Ian, ha avuto un’influenza notevole su di me. Mi ricordo ancora di quando, a 8/9 anni, provavo a correre 7/8 km con lui, ma a metà crollavo. «Ian, non ce la faccio», ansimavo. Si chinava, mi guardava negli occhi e mi incoraggiava: «Niente è impossibile. Non c’è spazio in questa vita per i “non ce la faccio”». Poi mi tirava un calcio nel sedere per sottolineare la cosa. Ogni volta che penso: “Non ce la faccio”, mi viene in mente quel calcio nel sedere.

La forza di un giocatore non si vede quando è al suo meglio, ma quando è fuori forma e riesce a vincere comunque. Tiger ne è la dimostrazione: anche quando non “sentiva” lo swing, trovava sempre un modo per vincere. Mi è capitato spesso di tirare un colpaccio dal tee, ma poi riuscivo a buttarla in green in qualche modo per imbucare, infine, il putt.

Come succedono queste cose? Determinazione. Tiger ne ha sempre avuta più dei giocatori che ha sconfitto. Sembra tenerci più degli altri. Lo dicevano anche a me, quando giocavo. Davo quell’impressione. Sotto pressione Tiger ha tirato una quantità incalcolabile di colpi fantastici. Per la maggior parte dei giocatori le emozioni distruggono la performance.

È incredibile, invece, come io abbia trovato i colpi più spettacolari della mia carriera nei momenti di maggiore tensione, nei momenti di necessità. Non so se fosse fortuna o continuità. Forse talento?

Ovviamente spero nel meglio per Tiger, sono un suo grande tifoso. Penso che sia stato danneggiato dall’eccessiva ricerca della perfezione. Era sulla via per diventare il più grande golfista mai visto sulla terra. Vince lo US Open di 15 colpi e poco dopo è in campo pratica a far lezione e a cambiare swing.

C’è sempre un limite e non penso che potesse migliorare ancora. Ho ricercato un miglioramento tecnico per tutta la mia carriera (con l’unico rimpianto di non aver potuto imparare da Ben Hogan) ed è un atteggiamento capriccioso che non porta a miglioramenti sensibili. È uno sport talmente complicato che è giusto porsi un limite.

Lee Trevino – Una ragione per tutto

Tiger, come me, è ossessionato dal golf. La gente deve capire che si è fatto da solo. Non è nato così. Le superstar si fanno in quel modo. Quando vuoi essere il migliore devi dare qualcosa in più. Non puoi semplicemente fare come tutti gli altri. Tutti i migliori fanno così. Io l’ho sperimentato su di me.

Più miglioravo, più mi piaceva e più ero spinto a praticare. Il segreto è fare tutto con una ragione. Il campione si rende conto del perché delle cose. Del perché la palla fa qualcosa o perchè fare un determinato esercizio. Invece, la maggior parte delle persone non percepisce questo perché.

Ho sempre giocato in draw con un bello swing finchè non sono tornato dai Marine e ho visto Ben Hogan a Shady Oaks giocare in fade. Da lì ho imparato a limitare gli errori a sinistra. Giocavo con due aste. Miravo a una bandiera, ma tiravo a un’altra. Mi mettevo sulla palla in questo modo (si alza e si posiziona con uno stance aperto, nda). Guardavo dritto al bersaglio. Non serve muovere la testa per guardare l’asta. Da lì tiro un push-fade. È l’unica opzione con uno stance così aperto.

È nella tua mente, nel tuo corpo. Puttavo allo stesso modo, copiando Nicklaus, miglior puttatore che io abbia mai visto. Devi essere in sintonia col bersaglio. Durante lo swing immagino e sento l’obiettivo nel mio inconscio. Non potete pensare mentre swingate. Più lo fate, più sbaglierete. Quello che sta succedendo, e lo dico con il massimo rispetto, è che i maestri di oggi si concentrano su ogni minimo movimento di ogni singolo muscolo. Ma così si diventa matti.

Aveva ragione Palmer quando diceva: “Fate il vostro swing”. Tiger Woods voleva superarsi. Non capiva che, se avesse mantenuto quel livello, avrebbe comunque continuato a vincere. Voleva di più. E si è stufato. Non gli bastava vincere di 15. Non gli bastava conquistare il 30 per cento dei tornei. Era troppo bravo e la cosa gli si è rivoltata contro. «Non riesco più a insegnargli niente», mi confidò una volta Butch Harmon. «Ne sa più di me, anche tecnicamente parlando. Non hai idea di quante cose sappia in materia». Tiger, infatti, ragionava come me.

Sapeva il perchè delle cose ma, come dice Butch, «Alcuni campioni hanno comunque bisogno di qualcuno che guardi loro le spalle». A me non serviva. Jack una volta mi disse: «Sei il golfista più intelligente che io conosca». Il miglior complimento che abbia mai ricevuto. Non smetti mai di sognare il golf. Amo l’arte che serve per praticarlo. Amo le persone. E l’essere ancora in grado di cavarmela bene. In Tiger tutto questo è elevato al massimo.

Sarebbe veramente facile per lui dire: «Ho chiuso con questo». Il suo fondo pensione ha più soldi di una grande società. Quindi, no; semplicemente ama questo sport, ama competere, ama vincere, ama giocare bene. Questo è quanto. Se non dovesse infortunarsi nuovamente, penso che possa durare fino a cinquant’anni, per poi giocare i Major del Champions Tour.

Riprendere dopo aver recuparato da un infortunio è una tra le più belle sensazioni al mondo. Quando la vertebra lombare mi ha bloccato, sono stato a letto per tre mesi. Non riuscivo neanche a mettermi i pantaloni. Non riuscivo a muovermi. Dal 2004 in avanti, dopo un’operazione, è passato ogni dolore. È stato come un banchetto dopo tre mesi di digiuno.

Per Tiger sarà la stessa cosa. Ha perso il suo corpo, non il suo talento. Più durerà senza sentire dolore, più fiducia prenderà. Da un giorno all’altro si sveglierà dicendo: «Ragazzi, sono tornato».

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