Un anno dopo, si stenta quasi

a credere di averle vissute, tutte quelle emozioni firmate Francesco Molinari. C’erano stati già il trionfo centrato a Wentworth e quello sfiorato a Gardagolf. Poi sarebbe arrivata la Claret Jug, il sogno proibito di generazioni di golfisti italiani, e la prima vittoria in America e ancora quei giorni perfetti e indimenticabili della Ryder parigina, fino al suggello della vittoria finale nella Race to Dubai. Finito? No. La vittoria a casa del “Re” Arnold Palmer, la finale del Match Play WGC mancata d’un soffio, quindi il Masters agrodolce o meglio dolce-amaro, in sequenza temporale, ma comunque da protagonista assoluto per 56 delle 72 magiche buche di Augusta, prima di scivolare a un onorevolissimo quinto posto, pur venato di rimpianto.

 

Adesso si riparte (quasi) dal via

E sarebbe bello immaginare che la giostra si rimetta in moto alla stessa maniera. Bello ma poco realistico: pare che solo l’indecifrabile Koepka, primo attore nei Major ma comparsa nei tornei normali, abbia in questo ultimo periodo la capacità di ripetersi nei quattro tornei “stellati”. In più, si presenta in Irlanda del Nord col suo caddie, il 41enne Ricky Elliott che a Portrush è nato e cresciuto, facendovi messe di titoli giovanili. Eventuali errori di strategia, dunque, sono da escludere: le trappole di quell’aspro links adagiato sul mare e sferzato dal vento, Elliott le conosce tutte.

 

Dopo Augusta, il miglior Molinari

non si è più visto. Il picco è rappresentato dal 16° posto pari merito all’US Open, in quella specie di percorso di guerra che era Pebble Beach. Un buon risultato: l’unico, però, di rilievo nelle cinque gare post Masters. È ragionevole pensare che le ultime sette buche di Augusta abbiano lasciato il segno: non è facile rassegnarsi a un sogno svanito così. E, del resto, della sindrome da Masters mancato potrebbero parlare diffusamente tipi come McIlroy o Spieth, segnati da analoghe disavventure.

 

A Carnoustie Francesco ha vinto in rimonta

Ad Augusta ha perso da rimontato, sperimentando la tensione supplementare che dà l’ultima partenza dell’ultimo giorno. A Portrush, da campione in carica, il profilo di Molinari spunterà da ogni angolo: nella conferenza stampa pre-gara, sui manifesti, nelle copertine sia del corposo book statistico per i giornalisti sia delle riviste specializzate (il più importante mensile inglese di Golf ha chiesto a noi un’intervista esclusiva per l’edizione dell’Open). Ci sarà ancora un surplus di tensione da gestire, ma non sarà una sensazione nuova: ormai Chicco è un frequentatore abituale di certi palcoscenici, a dispetto della sua indole riservata. Lascio a lui, che ci onora della sua esclusiva collaborazione, di raccontare in prima persona le sensazioni della vigilia. Una cosa è certa: pur avendo scelto di giocare solo cinque tornei tra Augusta e Portrush, Francesco ha lavorato intensamente a Londra per realizzare un’onorevole difesa del titolo: se poi avrà ritrovato il tocco magico che tanto a lungo lo ha assistito…

 

Intanto, però, è doveroso sottolineare

quanto Molinari abbia alzato l’asticella delle attese. Viziati dalla sua ascesa, registriamo ormai come una delusione un quinto posto al Masters e come normale amministrazione un 16° all’US Open. Ma non può essere così. Ne ragiona Silvio Grappasonni nella sua rubrica: il livello medio si è impennato, i rivali si moltiplicano e hanno canini sempre più affilati. Resistere al vertice, fra i primi del mondo, in forza di un rendimento che alterna picchi e regolarità (ma mai rovinose cadute) è già in sé un’impresa. Sarebbe il caso di non dimenticarsene.

Da “Il Mondo del Golf Today” n° 303 – luglio 2019

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