Che periodo, cari amici di Golf Today! Ho giocato sei tornei in sette settimane, fra Europa e Stati Uniti e, come saprete, mi son trovato spesso nelle primissime posizioni. Ci eravamo lasciati dopo Wentworth e, a seguire, praticamente non ho avuto tregua. Naturalmente ho qualche rimpianto, ma vi garantisco che, specie in America, la competizione è tremenda. Sei costretto a rischiare, come è successo alla buca 12 del Travelers Championship. Il venerdì avevo ottenuto l’eagle, drivando in green; era doveroso riprovarci anche la domenica, per salire in classifica. Purtroppo la pallina è finita in acqua, ed è stato bogey: ma in certe occasioni non puoi giocare in sicurezza.
A proposito di acqua, so che si è parlato molto anche del mio colpo al par 3 della 16 al Memorial, finito a bagno a pochi metri dall’asta. È vero, il mio caddie mi aveva avvertito di non guardare all’asta, ma non è vero che non gli ho dato retta: semplicemente ho sbagliato un po’ il colpo. Non tutto riesce sempre alla perfezione, purtroppo. Voglio raccontarvi, però, la soddisfazione di aver conosciuto Jack Nicklaus, al Memorial. Mi sono presentato ed è stato gentile e generoso di complimenti per il mio gioco. A fine gara (ero nell’ultimo team) mi ha salutato e mi ha detto: «Immagino che avrai dei rimpianti, ma sei stato molto bravo». Un bel riconoscimento da un campione leggendario come lui: credo che di golf ne capisca un pochino…
Veniamo all’argomento “putt”, che so essere sempre d’attualità in Italia. Intanto una cosa: dopo l’Open di Spagna, ho cambiato putter e da un “blade” tradizionale sono passato a un mallet. Mi trovo meglio, soprattutto per l’allineamento. Si discute tanto dei miei putt; ma le statistiche americane, che sono più dettagliate di quelle europee, parlano chiaro: vado bene sui putt lunghi e su quelli corti, ho qualche problema invece fra i tre e i sei metri. Il fatto è che, col mio tipo di gioco, piuttosto preciso, mi trovo spesso a puttare da quella distanza, per cui se non imbuco si nota di più. I numeri non possono mentire: devo migliorare da quella distanza. Il resto va bene, compresi i putt corti che, invece, vengono spesso ritenuti il mio punto debole.
Negli Stati Uniti cominciano a riconoscermi sul campo (a proposito, mi sono già assicurato la conferma della carta, avendo guadagnato più di tutto l’anno scorso) e poi là, dove c’è una grossa comunità italiana, trovo anche molto tifo. Al Travelers Championship, in Connecticut, sul tee della 1 ero insieme a due americani, Harris English e Derek Ernst: beh, c’è stata un’ovazione più grande per me che per loro, grazie agli italiani d’America.
Intanto, mentre brilla sempre di più la stella-Spieth, che non ha la potenza di McIlroy, ma ha un’impressionante capacità di gestione della gara e dei colpi decisivi, negli spogliatoi del Tour si parla molto, ovviamente, del difficile momento di Tiger Woods. Io mi sto facendo l’idea che sia anche una questione di stimoli e di un allenamento che non è più quello di una volta. Molti colleghi, però, pensano anche che Tiger giochi troppo poco per poter uscire dalla crisi. Serve continuità nel golf; e se giochi pochi tornei, senza nemmeno passare i tagli, è dura ritrovarsi.
Adesso vi saluto, sto per prendere il treno che da Londra mi porterà a Parigi per l’Open di Francia. Che bello, per una volta, cavarsela con qualche ora di treno, senza aeroporti, check-in eccetera. A St Andrews, invece, andrò in macchina. E speriamo bene…