ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

A 82 anni, e con 82 vittorie nel palmarès (di cui 13 Major), Mickey Wright si racconta, dagli esordi ai trionfi fino al ritiro. E confessa di tirare ancora qualche pallina: ogni giorno, per continuare a sentirsi una golfista.

 

di Guy Yocom

 

Mickey Wright è senza dubbio la miglior giocatrice di golf di tutti tempi. Il suo palmarès conta 82 vittorie sul LPGA, di cui 13 Major.

Il suo swing, un miracolo a livello estetico e tecnico, secondo Ben Hogan era il migliore di sempre.

Nel 1969, a 34 anni, era una dea del golf. All’improvviso, ha salutato e si è quasi ritirata, giocando sporadicamente fino al 1973, quando è tornata a casa sua in Florida dedicandosi alla vita privata.

Da quel giorno Mickey ha rilasciato poche e brevi dichiarazioni. Solo in questa occasione ci ha svelato un po’ di lei. Nell’intervista, Mickey si esprime in un modo molto genuino, con voce forte e accesa.

Una donna con la testa sulle spalle, generosa e modesta. È orgogliosamente a favore del golf ed è decisamente una tradizionalista.

Scorrendo i suoi pensieri, converrete con noi che è un vero spettacolo.

•• Per aver 82 anni sono in grande forma. Ho avuto un paio di interventi a inizio anno che non voglio rendere pubblici, ma sto recuperando bene. Infatti ieri (questa intervista è stata realizzata a fine settembre, ndr), sono uscita dal retro e ho tirato cinque ferri verso il fairway del campo dove vivo. Lo faccio spesso. Non sembra molto, ma le estati in Florida non sono uno scherzo. Quante donne di 82 anni conoscete che si mettono a tirar palline con questo caldo?

•• Amo ancora fare swing più di ogni altra cosa. Dopo la mia ultima apparizione in una gara, ho tirato palline dal mio giardino per anni. Un giorno, nel 2011, il museo dell’USGA ha allestito la “Mickey Wright Room” e mi sono stati richiesti alcuni oggetti della mia vita che ritenevo importanti. Ho scelto, più di ogni altra cosa, un lembo del mio tappetino di plastica. Avevo capito che era il momento di smettere definitivamente e così ho tirato qualche colpo un’ultima volta dal mio tappetino, per poi donarlo al museo. Ma alcuni miei amici dall’Indiana, saputa questa cosa, mi hanno mandato un nuovo tappetino. Sapete come funziona: metti un tappetino, alcune palle e un bastone davanti a un golfista e la tentazione di usarli sarà irresistibile. Così, trattenendomi, tiro ancora 6/7 palle per volta. Giusto per rimanere una golfista.

•• Tanto tempo fa alcuni soci dello Wilson Sporting Good mi hanno mandato un nuovo set di ferri. Era un po’ che non vedevo un nuovo set e è stato un vero shock. Gli shaft sono molto più lunghi e i loft molto più duri di quanto fossi abituata. Mi sembrava di non riuscire a tenerli in mano. Swingando con quelli mi sembrava di giocare un gioco diverso e non per forza più facile. Così, preferisco rimanere sulle mie abitudini e utilizzo il mio sand con uno shaft della Wilson che ha circa vent’anni. Lo tiro a circa 90 metri, forse 100. Non così distante da quanto facessi ai tempi.

•• Sto provando i nuovi metodi di swing che continuo a sentire e che vedo nei giocatori in tv. Ma a essere onesta, mi lasciano senza parole. Le loro schiene perfettamente dritte e rigide e la loro parte bassa che si muove a stento mi fanno pensare che potrebbero subire facilmente qualche infortunio. Sembrano delle macchine: forse non è l’esempio più calzante, ma tutti quegli angoli mi fanno pensare a questo. Ed è esattamente l’opposto di come ho imparato io. Però ammetto di essere io a non capire i metodi moderni. Una cosa che non mi piace per certo è che vedo molti giocatori affidarsi troppo al taping: mettono i nastri medicali sulle mani, sulle braccia, sulle gambe, sulla schiena… ovunque. Questo non è un buon segno.

•• Ho avuto un solo infortunio dovuto al golf in tutta la mia carriera, una ciste nel polso sinistro. Mi sono anche fatta male all’anca due volte, ma in entrambi i casi è successo mentre portavo i tacchi alti alle feste. Per cui, non contano.

•• Avete probabilmente già sentito parlare di Lucy Li, la ragazza che a 11 anni, nel 2014, riuscì a qualificarsi allo US Open femminile. Abbiamo iniziato un rapporto di amicizia via e-mail, che è abbastanza strano, considerato che io potrei essere la sua bisnonna. Ma è così che funziona, la lingua del Golf non ha confini. Adesso Lucy ha 14 anni ed è ancora piccola e leggera, non oltre i 45 chili. Ovviamente vorrebbe tirare la palla più lunga. Le ho detto, però, di non preoccuparsi, perché la distanza arriverà con gli anni. Le ho suggerito di girare il più possibile spalle e fianchi e, per l’amor di Dio, di alzare quel tallone sinistro dal terreno. E le ho raccomandato di evitare di fare pesi in palestra, ma semplicemente tirare tante palline. Non c’è modo migliore per avere una muscolatura da golfista che svilupparla facendo proprio lo swing. In questo modo migliorerà anche la memoria muscolare che è fondamentale per una giocatrice così giovane.

•• Il mio primo maestro è stato un uomo chiamato Johnny Bellante. Durante la prima lezione al Country Club La Jolla, ha staccato un ramo da un pino e me l’ha dato. Mi impose: «Voglio che questo ramo si metta a cantare». Per fare un suono significativo quando swingavo con il ramo, dovevo raggiungere velocità elevate, mettendoci però ritmo. È stata una prima lezione fantastica. Mi ha insegnato la sensazione di attraversare la palla, non di colpirla.

•• Il maestro che mi ha influenzato di più è stato Harry Pressler. Era conosciuto in California come il miglior coach per proette. Tutti i sabati mia madre guidava per due ore e mezzo per andare al Country Club San Gabriel e farmi fare appena trenta minuti di lezione. Il mio swing, che è il sogno di molti, è in realtà lo swing di Harry. Sul muro del suo ufficio aveva una foto di Ben Hogan che praticava con una cintura attorno alle cosce e un nastro attorno alle braccia per tenerle il più vicine possibile al corpo durante lo swing. Per parlare ancora del vecchio stile e dell’individualità, Harry riteneva che ci fosse uno swing perfetto. La faccia dritta nell’andare indietro, la mano destra sotto il bastone all’apice dello swing e il bastone a 45°. Faccia del bastone dritta nella discesa fino all’impatto e dopo aver colpito la palla. Mi portava con la forza in queste posizioni così che potessi allenare i miei muscoli a raggiungerle naturalmente. Il mio swing di certo aveva stile in termini di ritmo, ma in realtà era il risultato di questo lavoro. È stato lo swing di tutta la mia vita e, accidenti, se ha funzionato.

•• Molti anni più tardi, ero in campo pratica ad Austin con Betsy Rawl, quando Harvey Penick è arrivato a guardarmi. Harvey non è mai stato un mio maestro, ma da quando ho iniziato ad andar là a tirar palline mi ha dato una mano. Una volta mi ha proposto un esercizio fatto in casa: una pesante palla di metallo attaccata in fondo a una catena. Dall’altro capo della catena c’era un grip. Mi assicurò che avrebbe migliorato il mio ritmo. Disse: «Fa’ semplicemente il tuo swing normale». Non penso fosse tanto diverso dall’esercizio del ramo. La palla si staccò e volò verso il campo pratica. Se avessi preso qualcuno, lo avrei sicuramente ucciso. Ho guardato Harvey e la sua bocca era spalancata. Mi disse che probabilmente quell’esercizio non era adatto a me.

•• A 12 anni ho iniziato a prendere parte alle golf clinic di Fred Sherman nel Country Club Mission Valley, a San Diego. Si svolgevano di notte e molte persone venivano apposta per guardarle. Il campo pratica era illuminato, ricordava uno stadio di baseball. Quando si faceva tardi, Fred mi invitava a fare alcune dimostrazioni. Chiedeva: «Mickey, facci vedere come fai scomparire la palla». Così tiravo il driver e la palla spariva dalla vista, lontano dalle luci. Col passare degli anni, quando mi serviva un driver lungo, mi ripetevo in mente la sua richiesta: «Mickey, fai scomparire la palla…».

•• Quando tiravo i drive oltre le luci, dalla folla rumoreggiava un “Oooh” molto stimolante. Così ho così imparato che mi piacevano le attenzioni del pubblico. Penso che i migliori giocatori vogliano fare sempre un po’ di show. Ma anche i giocatori più timidi hanno una parte di loro che dice: “Guardate cosa so fare”. È fondamentale. Il desiderio di esaltare il pubblico, di mostrare il tuo talento anche in tv per far vedere alle persone che sai fare una cosa molto bene, è un dono. Non riesco pensare a qualcuno che non abbia questo desiderio.

•• Dopo aver sconfitto Barbara McIntire nella finale dello Junior US Open 1952, ero tanto felice per me quanto rammaricata per lei. Era un’“amica/nemica” e sapevo quanto fosse importante per lei. Nel 1962 e nel 1964 ho vinto il Titleholders e lo US Open femminile al play off, sconfiggendo sempre la stessa proette, Ruth Jessen. La povera Ruth aveva giocato entrambe le volte veramente bene. Ancora adesso, le loro sconfitte mi creano dispiacere. Suppongo che ci siano giocatori a cui vedere gli avversari dispiaciuti non faccia né caldo né freddo. Io non ne sono mai stata capace.

•• Nel 1954, quando ero ancora dilettante, all’ultimo giro dello Us Open ero in team con la grande Babe Zaharias. Avevo 19 anni, ero terrorizzata. Immaginate di dover giocare, da un giorno all’altro, con la più grande proette di tutti i tempi: Babe era una dea, come se arrivasse da un altro pianeta. Nonostante un’operazione per un cancro l’anno prima, era divinamente atletica. Non avevo mai visto una struttura muscolare di gambe e braccia come la sua. Era una showgirl, ed erano tutti lì per lei. A una buca ha chiamato suo marito, George, per coprirla mentre si toglieva la guaina contenitiva che indossava. Nonostante io fossi molto imbarazzata, Babe non dava segni di rossore. Poi, si è voltata verso la folla e ha esclamato: «Guardate come tiro, adesso». Era competitiva, tosta, determinata e gentile. Mio Dio, quanto giocava bene. Durante lo US Open sono rimasta impressionata dal suo gioco corto. Ha vinto quel torneo di 12 colpi. Sono arrivata quarta a pari merito, a 17 colpi. È stato un enorme privilegio vederla giocare da vicino, considerando la sua scomparsa due anni dopo.

•• Durante i miei primi anni sul Tour, viaggiavo di città in città in macchina. Una vita difficile? Per altri, forse: non per me. Ho sempre viaggiato in Cadillac, macchine grandi e molto comode. Non c’erano così tante macchine sulle strade e, quindi, niente code. Era puro divertimento. Ti dava tempo per rilassarti, pensare e vedere questo Paese incredibile. Ascoltavo spesso la radio, principalmente musica country; ma mi piaceva Elvis Presley. Eravamo tutte pazze di lui. Nel 1956, a St. Petersburg, l’ho finalmente visto in concerto. È stato incredibile. Avevo vent’anni e lui era l’uomo più sexy d’America. C’erano molte ragazze tra la folla e io mi comportavo esattamente come loro: urlavo e strillavo.

•• Noi giocatrici eravamo abbastanza amiche, ma non come nel film “Ragazze vincenti”, quello con Madonna, Geena Davis e la loro squadra di baseball femminile allenata da Tom Hanks. Non c’era questa idea di comunità, questo spirito di squadra. Tenete presente che eravamo lavoratrici indipendenti. Il golf è l’emblema dello sport individuale. C’erano gentilezze ovunque, dal condividere un esercizio sul putt, all’aiutarsi e incoraggiarsi. Tuttavia dire che ci sentivamo una famiglia è un po’ troppo. La famiglia è una cosa totalmente diversa.

•• Penso che i golfisti abbiano un momento, una piccola finestra, in cui raggiungono il loro massimo, il punto più alto delle loro capacità e del loro talento. Per me è stata la buca 16 del Sea Island Open nel 1957. Avevo un piccolo vantaggio sulla seconda e dovevo tirare un ferro 2 al green, volando un bunker enorme. Era un colpo di estrema difficoltà, aggravato da un vento a 45 km/h. I ferri lunghi sono sempre stati il mio punto di forza, ma quel colpo, che finì a 2 metri, mi fece venir i brividi. Era di una qualità impressionante, è venuto esattamente come l’avevo visualizzato: qualità e contatto, volo di palla con perfetta altezza e curvatura. Meglio non avrei potuto fare. Ho vinto il torneo e anche se non considero quella la mia più grande vittoria, ho speso gran parte degli anni successivi a provare a rifare quel colpo.

•• Molti giocatori hanno un ferro preferito, quello che ti dà più sicurezza quando ti posizioni sulla palla. Per me era il ferro 6 del mio set di ferri Wilson Staff Dynapower, del 1963. Anni dopo il mio ritiro, amavo ancora tirarlo fuori e andare a fare alcune buche nel campo dietro casa. Era il ferro, parlando di distanza, perfetto per fare par: tiravo il tee shot e successivamente il colpo al green. Il 5 era troppo, il 7 troppo poco. Un giorno si è rotto. La testa si è staccata e per qualche strana ragione non c’è stato modo di ripararlo. È stato un giorno triste. Adesso è al Museo USGA, con il resto dei bastoni.

•• Quando ero al massimo, entravo in uno stato che definirei di “isolamento mentale”. Probabilmente è solo qualcosa di simile alla concentrazione che hanno i pro oggi. Era uno stato mentale in cui mi concentravo al massimo e in cui giocavo il miglior golf possibile grazie a quella sensazione di fiducia. Ero in questo stato durante il 62 a Hunting Creek, Louisville, nel 1964. È un caso a parte, ma lì ho giocato il mio miglior golf.

•• Avevo solo 34 anni nel 1969, quando ho lasciato il golf a tempo pieno. Nel 1960, poco dopo essere venuta via da Dallas, sono stata invitata da Earl Stewart a iscrivermi e a giocare al Golf Club Oak Cliff. Earl è stato un gran giocatore e maestro di golf e, per quanto io sappia, è stato l’ultimo maestro a tempo pieno a vincere sul PGA Tour sul suo campo di casa. Ho giocato molto a golf con lui. Ci giocavamo 50 centesimi nei nostri match, giusto per mettere qualcosa in palio e non so se io l’abbia mai battuto, anche costringendolo a tirare solo il ferro 2. Ho provato spesso a chiedergli un parere sul mio swing. Ma si è sempre rifiutato di rispondermi. Mi liquidava: «Devi giocare: non è questione di swing, è questione di come ti comporti in campo». Era una persona veramente colta, parlava di responsabilità e impegno in ogni swing e di come comportarsi dopo brutti colpi. Lo rispettavo tantissimo. Lo volevo rendere fiero.

•• Quei match scommettendo 50 cent con Earl erano un’aberrazione. Non mi è mai piaciuto giocare a soldi nei match di allenamento, anche se sono una persona che scommetterebbe su qualsiasi altra cosa. Ma pensavo che il golf fosse troppo importante per scommetterci. È una cosa sacra per me. Scommettere, la sporca. Il golf è già abbastanza interessante così com’è.

•• Nel 1961 ho vinto dieci tornei sul LPGA Tour. Sono tornata a Oak Cliff, sperando nei complimenti di Earl. Invece si limitò a un: «Non male, ma avresti dovuto vincerli tutti». Pensavo scherzasse, ma con quelle parole è riuscito a rinnovare le mie ambizioni. Nel 1962 ne ho vinti ancora dieci; l’anno dopo, tredici. Ogni volta che tornavo a casa, Earl mi ripeteva le solite parole: “Non è abbastanza, li dovresti vincere tutti.” Alla fine, in quatto anni ho vinto 44 tornei, di cui otto Major. Durante quel periodo sono stata anche presidente del LPGA Tour, presenziando a ogni evento al Rotary Club. La voglia di soddisfare le aspettative di Earl, del Tour, di mio padre e del pubblico mi sfiancarono fisicamente e soprattutto psicologicamente. Mi venne un’ulcera e ogni tipo di stanchezza da stress. Non sono stati gli anni, ma il chilometraggio.

•• Ho continuato, ma nel 1969, con la mia gamba dolorante dopo i problemi alla caviglia, mi sono allontanata totalmente dal golf. Mi sono iscritta alla Southern Methodist University per mantenere attiva la mia mente. Ho capito in fretta che i college erano cambiati dai miei tempi a Stanford, dove ero stata un anno prima di passare pro nel 1954. C’erano tantissime infrazioni alle regole, una cosa inconcepibile nella mia Stanford dove tutti obbedivano a un tacito codice d’onore. Anche l’esperienza golfistica, dove l’onore e l’autodisciplina erano la prima regola, è stata totalmente diversa. Inoltre la “nuova matematica” non riusciva a entrarmi in testa: alla fine ho preso una “A”, ma l’impegno e il tempo per ottenerla sono stati esagerati. Tutto sommato alla univerità sono stata poco, rendendomi conto che sarei dovuta tornare a fare quello che facevo meglio, cioè essere una professionista di golf. Ho ripreso a giocare qualche torneo fino al 1973.

•• Negli anni Sessanta molte di noi iniziarono a farsi film sugli swing. Non ero mai soddisfatta di come mi vedevo. La tendenza era essere critici per cercare di migliorare i punti che non sembravano perfetti. Ma è impossibile raggiungere la perfezione: non c’è un limite, solo Dio sa raggiungerla. Ascoltare i consigli di un buon maestro è sufficiente.

•• Cosa ne penso del nuovo dress code del LPGA? Il confine tra l’essere femminile e la volgarità è molto sottile. Guardando indietro negli anni, l’LPGA Tour combatteva il maschilismo: le giocatrici si vestivano apposta per mostrarsi più seducenti. Jan Stephenson e Laura Baugh erano molto brave nel fare questo perché, oltre a essere molto sexy, erano anche molto femminili. Erano attraenti, ma il loro look era naturale, non forzato. Molte giocatrici di oggi forzano l’essere sexy. Ma è un torneo di golf, non un Club per uomini. Quindi, sì: sono a favore del dress code. Non credo che la gente farà fatica a vedere nelle giocatrici anche delle ragazze attraenti.

•• Seguo molto lo US Women Amateur. Era al San Diego Country Club, un campo tremendo e molto speciale per me. Nel par 4 della 18, una californiana, Harley Moore, ha scagliato un drive che le ha lasciato un wedge di secondo. Ai miei tempi, non meno di un ferro 2. Il problema della nuova attrezzatura e della distanza – e nessuno se ne rende conto – è che mette in secondo piano l’esperienza. Con il ferro 2 avevo diverse scelte: che volo di palla? Draw o Fade? Alto o basso? Per Harley, il wedge era l’unica opzione. Quindi, anche se il golf resta uno sport spettacolare, oggi è diventato meno mentale.

•• Quando vedo una ragazzina reagire a un putt sbagliato mettendosi la mano sul fianco, vorrei entrare nella tv e farle lo stesso discorso che Betsy Rawl fece a me appena arrivai sul Tour. Ero già una gran tiratrice di palla e finire dietro in classifica a una che, toccandola peggio di me, si salvava con gli approcci e il putt mi faceva impazzire. Avevo questa arroganza di pensare di dover vincere solo grazie al mio gioco lungo. Ne parlai con Betsy, che non gradì affatto le mie parole. Prima di tutto mi ricordò che la regola principale era di mandare la palla in buca con meno colpi possibili. Una regola semplice, ma un grande problema per molti tiratori di palla. In secondo luogo m’insegnò a curarmi di ogni colpo, senza dispiacermi dopo un averlo sbagliato. Quando smisi con i pianti, iniziarono ad arrivare le vittorie. Avrei comunque vinto dei tornei, ma non immaginavo di arrivare a 82 vittorie.

•• In paradiso il golf esiste di sicuro. Spero di andarci e ritrovarmi lì, sola con il mio ferro 2. Magari giusto un paio di angeli che mi guardano. Tutto sembrerà come il Golf Club Sea Island nei bei vecchi tempi, calmo e meraviglioso. Sarò lì che proverò a rifare il colpo del 1957. Se il paradiso sarà davvero così, finalmente riuscirò a ripeterlo.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here